Antonella Palermo – Città del Vaticano
Il tema del Messaggio del Papa per le Comunicazioni Sociali, diffuso sabato scorso, sta toccando la sensibilità di molti operatori del settore, avendo messo sotto una lente di ingrandimento i rischi di una informazione appiattita, non coraggiosa, preconfezionata. Parole, quelle di Francesco, che arrivano come un balsamo, e sono colte come invito a una sollecitudine ulteriore, per un giornalista come Paolo Borrometi, attualmente vice direttore dell’Agi e nella squadra di Tv2000. Ha all’attivo numerose inchieste, molto si è occupato di mafia e dal 2014 vive sotto scorta.
R. – Io voglio ringraziare ancora una volta il Santo Padre che è fra i veri rivoluzionari di questo tempo anche per lo sprone che ci dà sempre a continuare e a fare di più. Questo è il fil rouge che io intravedo in questo Messaggio: non rassegnarsi a un modo di fare informazione, ma andare sempre oltre, buttare il cuore oltre l’ostacolo, cercare di fare meglio. Si badi, cercare di fare meglio non è un tentativo di fare gli arroganti ma è un tentativo di combattere anche i nostri limiti. Quando si dice “consumate le suole delle scarpe” – che è ciò che ogni cronista dovrebbe fare – significa “non sedetevi”, andate a raccontare gli ultimi, la voce di chi non ha voce. E’ un richiamo bellissimo che ci consola e mi invita, ci invita a fare di più.
Il Papa mette in guardia dal rischio di una comunicazione sempre uguale, che non esce mai per strada a incontrare le persone e a verificare le notizie. C’è purtroppo anche un giornalismo che deve arrendersi a questo stile per mancanza di risorse e di coraggio editoriale. Quale è il tuo pensiero a questo proposito?
R. – Sì, il Papa denuncia il rischio di giornali fotocopia dove il genere dell’inchiesta e del reportage perdono spazio e qualità, a vantaggio di una informazione preconfezionata. E’ in effetti, ritengo, il vero problema dell’informazione di oggi, una informazione sempre più veloce dove il competitor, soprattutto per la condivisione sui social, non è più la qualità, ma il tempo. E’ un problema enorme. Lo dico sia sotto il profilo di chi ha tentato nella propria esperienza giornalistica di fare inchiesta – una mischia in cui entriamo veramente in pochi, oramai, per tantissime ragioni: non ci sono più possibilità economiche, gli editori investono pochissimo, l’inchiesta costa tantissima fatica e poi non garantisce l’approdo; non sempre infatti il lavoro di inchiesta ti porta a una pubblicazione – sia da vice direttore di una agenzia di stampa che si scontra sempre con la necessità di dare la notizia, ma con la fondamentale conditio sine qua non, non solo di verificarla, ma anche di approfondirla e, appunto di non appiattirsi. Andare oltre, dunque, vedere dove tanti altri non vogliono vedere per comodità, per colpa o per dolo. E’ un aspetto che il Santo Padre, secondo me, tratteggia in una maniera straordinaria.
Il Papa loda i giornalisti, cineoperatori, montatori che spesso rischiano nel loro lavoro. Quanto è alto questo prezzo per te che vivi sotto scorta? Come te ne fai una ragione?
R. – Io in questo momento ho 47 processi per minaccia di morte. Alcuni sono già terminati al primo grado, altri sono in secondo grado, altri in Cassazione. Il prezzo è alto. Però io tento sempre di ricordare a me stesso che noi non siamo la notizia, che noi dobbiamo continuare a scrivere notizie. E’ cosa ben diversa. Nella mia vita ho sognato di fare il giornalista e tento di fare il giornalista ogni giorno. Queste parole del Santo Padre mi riportano alla mente quella conversazione privata di quaranta minuti straordinari che ebbi proprio con lui qualche giorno dopo che la Procura di Catania rese pubblica quella “eclatante azione omicidaria” in cui io dovevo morire. Sentii l’ennesimo richiamo a quella voce della coscienza che spesso mi porto a casa la sera stanchissimo, stremato, lontano dai miei affetti, lontano dalla mia famiglia, ma che mi dà la voglia di continuare a fare semplicemente il mio dovere. Non dobbiamo piangerci addosso. Dobbiamo fare i giornalisti. D’altronde, se io, a seguito delle tante minacce, avessi smesso di fare il giornalista, non avrei perso solo io, ma avrebbero perso tutte le persone, poche o tante, che grazie a me e a tanti colleghi e colleghe, trovano modo di raccontare fatti che non racconta quasi nessuno o raccontano in pochi. Le parole del Santo Padre penso siano rivolte a maggior ragione come sprone alle tante colleghe e ai tanti colleghi che raccontano quelle periferie del mondo, che vanno illuminate a giorno.
Il Papa parla anche del rischio di una “eloquenza vuota”. Quali sono gli ambiti del giornalismo, secondo te, più deboli, sotto questo profilo, e perché?
R. – Io non ho la presunzione di tracciare con esattezza quali possono essere. Certamente si fa riferimento a quando ci si parla addosso, oppure si usano etichette drammatiche. E’ una sorta di metafora che rispecchia quel giornalismo che dev’essere cane da guardia della democrazia. Ecco, troppo spesso io vedo che il giornalismo è più un cane da compagnia. Secondo me questo è il rischio più grave. Noi ai potenti – qualsiasi essi siano – dobbiamo fare le pulci. Il giornalismo deve essere scomodo. Secondo il Papa ci riporta all’invito alla scomodità.
E’ risolvibile il fenomeno delle fake news?
R. – Diventerà risolvibile nel momento in cui si farà un patto d’onore soprattutto con i cosiddetti opinion leader. Le fake news non si arginano solo con l’impegno – che ci deve essere e che considero quasi scontato – dei giornalisti, ma anche con un patto d’onore che ci deve essere tra i giornalisti, chi ha responsabilità pubbliche, i social.
Raccontare la pandemia solo con gli occhi del Paesi più ricchi è un’altra distorsione evidenziata nel Messaggio del Papa…
R. – Ogni giorno mi sforzo con i colleghi degli Esteri di far fare approfondimenti su quei Paesi che raccontiamo meno. Tutto il tema dei vaccini… non sappiamo nemmeno quanti siano i contagi. Dare voce a quei Paesi svantaggiati ecnomicamente, dove si continua a morire e dove morire non fa notizia. E’ una follia. Pensiamo al Santo Padre che ieri ha fatto riferimento al clochard morto… bisogna costruire ponti. Dobbiamo dare nome e cognome a queste persone. Noi siamo arrivati in un momento in cui si continua a morire nel Mediterraneo e questo non trova spazio sui giornali. Trovo sia aberrante.
E’ cominciato a metà gennaio il primo grande processo alla ‘ndrangheta calabrese. Come guardi a questa operazione giudiziaria? Hai l’impressione che stia avendo una buona copertura mediatica?
R. – Il giorno in cui è cominciato il maxi processo, era il giorno della crisi di Governo in Italia. Non chiedo che non ci si debba occupare della crisi, ci mancherebbe altro. Però non è possibile che ci sia questo forte sbilanciamento. Noi nei fatti abbiamo completamento oscurato un processo che è storico, e non solo dal punto di vista dell’accusa, ma anche nel diritto della difesa. Vedo una scarsa copertura. Dirò anche un’altra cosa: noi se vogliamo andare a spiegare ai ragazzi il maxiprocesso a Cosa Nostra ricorriamo alle Teche della Rai dove sono depositate le immagini. La Corte nel maxi processo alla ‘ndrangheta non ha dato la possibilità alle telecamere di documentare il processo. E’ una cosa gravissima, che in un altro periodo storico sarebbe andata sulle prime pagine dei giornali e invece, in questo periodo storico, non trova neanche spazio per una breve.