Le relazioni con l’altro e con i territori devono essere ripensate nella consapevolezza di appartenere ad una comune umanità. Lo spiega l’architetta Lesley Lokko, che firma la 18ma Mostra internazionale a Venezia, nell’intervista a Vatican News in cui sottolinea le peculiarità di un ambito professionale chiamato a costruire non solo edifici, ma un modo di stare al mondo, un modo di decifrarne la complessità e le interconnessioni
Antonella Palermo – Città del Vaticano
“Credo che una delle sfide più importanti del nostro tempo sia il nostro rapporto con l’ambiente e il nostro rapporto con l’altro, che non possono chiaramente continuare come abbiamo fatto finora”. Ne è convinta l’architetta ghanese Lesley Lokko, direttrice della 18ma Mostra internazionale di Architettura “The Laboratory of the Future” che si è aperta a Venezia sabato 20 maggio. Sostiene che questa volta sia stato molto interessante il fatto che molti dei curatori abbiano risposto in maniera sollecita e creativa al tema del futuro e che si siano cominciate a vedere “le stesse preoccupazioni per le risorse, per l’ambiente, per l’estrazione, per lo sfruttamento”.
Con Vatican News conversa sui temi della Laudato si’ e di mondo africano alle prese con una progettualità che lei riesce a intercettare e a far emergere.
Curare il rapporto con l’ambiente e con gli altri
In questa Biennale concentrarsi sui processi di decolonizzazione e decarbonizzazione ha implicato attirare “l’attenzione sulla mancanza di cura che abbiamo l’uno verso l’altro e verso il pianeta”, spiega Lokko, che sotto questo profilo dice di condividere la visione di Papa Francesco, è “una preoccupazione comune”. Ma come si distingue la genuinità di un intervento, che si prefigge di ispirarsi ai principi di tutela del territorio, con operazioni diffuse che in genere hanno più a vedere con una sorta di moda, se non con il cosiddetto fenomeno del green-washing? “Credo che abbia a che fare con il livello di autenticità con cui si affrontano questi argomenti”, risponde la direttrice. “Ho sempre detto che la sostenibilità riguarda in realtà un cambiamento culturale, un cambiamento nel modo in cui pensiamo alle risorse. Non si tratta tanto di una gara scientifica per dichiarare le proprie credenziali. Si tratta davvero di cambiare il nostro modo di vivere”.
La bellezza? È trovare il vero
Che cos’è la bellezza per lei?: “Direi, la verità, trovare qualcosa di vero nella propria voce, nella propria creazione, nella propria espressione. Non ricordo quale poeta l’abbia detto, che oltre la verità c’è sempre bellezza; quando la si trova può non apparire bella, ma il manico della verità è una cosa davvero bella”. Lokko precisa che quanto più siamo in grado di riconoscere la complessità del lavoro degli architetti, tanto più potremo focalizzare il livello di autenticità che c’è dietro le loro opere. “Per molto tempo abbiamo pensato che gli architetti fossero semplicemente persone che costruiscono edifici, ma io ho sempre pensato agli architetti come a una categoria più ampia. In realtà l’architettura si occupa di costruire molte cose: costruire la società, costruire la conoscenza, costruire la fiducia, costruire la speranza… quindi per me il risultato finale non è tanto la bellezza dell’edificio o la sua estetica, ma la profondità della cura”. Il concetto chiave è che l’architettura va oltre la forma. “Credo che la formazione architettonica sia un modo molto interessante per cercare di capire la complessità; e il mondo sta diventando sempre più complesso. So che ci sono alcuni per i quali i film e i documentari e le installazioni d’arte e le sculture non sono architettura – osserva – ma per me la traduzione delle idee è sempre una forma di architettura, è una forma di costruzione”. Insomma, dice, gli architetti ci costringono a metterci in discussione, in modo positivo.
L’architettura non deve perdere la capacità di ascoltare
“Credo che fondamentalmente l’architettura riguardi le persone. Riguarda il modo in cui le persone vedono lo spazio, come lo usano, quali sono le loro ambizioni, i loro desideri, le loro speranze”, prosegue Lokko che approfondisce il senso della tendenza diffusa a metter su sempre più progetti di natura “partecipativa” in cui, afferma, non si fa altro che filtrare, attraverso la figura dell’architetto, le istanze delle persone. “Sarà molto triste – sostiene – se perderemo la capacità di ascoltare, e di sentire veramente quello che la popolazione dice sul proprio rapporto con l’ambiente e con il mondo”. Lesley Lokko, scozzese di origini ghanesi, è cresciuta in Africa, ha studiato negli Stati Uniti e in Inghilterra e vive tra Accra e Londra. È proprio questa cultura maturata a cavallo tra più mondi che lei ritiene sia stata all’origine di un primo impulso verso quest’ambito di studi: “Penso che a un livello molto profondo sono stata attratta dall’architettura perché mi sembrava una professione che mi avrebbe dato delle radici: in molti casi l’architettura riguarda il radicamento nella terra, la costruzione di una casa. Più studiavo l’architettura e meno ne sapevo, ed è per questo che ne sono ancora affascinata, così ho iniziato a pensare di voler diventare un professionista. Alla fine ho scoperto che non avrei mai potuto conoscerla completamente, ed è questo che mi piace”.
Percepirsi come parte di una stessa umanità
L’impulso dato dall’Africa e all’Africa in questa edizione della Biennale è esplicito e ricorrente. “Nel continente africano non abbiamo un ampio apprezzamento dell’architettura come forza culturale come in altre parti del mondo, quindi è piuttosto difficile convincere i Paesi a investire nella realizzazione di un padiglione o di una mostra; ma ciò che è stato molto interessante di questa Biennale è che gli africani e il mondo della diaspora africana sono arrivati insieme, non sempre sotto la bandiera di una nazione. In realtà è un collettivo e forse questo è qualcosa che il futuro può imparare: non si tratta tanto del territorio in cui si è nati o del passaporto che si porta, ma piuttosto del proprio approccio al mondo, di percepirsi appartenenti a un’umanità comune”. Lesley spiega che in Africa si tende a pensare più all’ingegneria e alle infrastrutture e meno alla figura dell’architetto; di fatto ce ne sono pochissimi, tuttavia sostiene che qualcosa sta cambiando. Non è che l’Africa voglia essere un modello di architettura, afferma, semplicemente vuole sentirsi parte di un discorso globale sull’architettura. E la Biennale a Venezia, potente amplificatore e incubatore di stimoli quale è, può diventare un valido alleato.