Francesca Sabatinelli – Betlemme
È giovedì, la ginecologa Hadeel, il pediatra Mo’tasem, entrambi musulmani, e l’infermiera Vera, cristiano-ortodossa, salgono sulla clinica mobile ferma nel parcheggio dell’Ospedale della Sacra Famiglia di Betlemme, opera del Sovrano Ordine di Malta. È mattina, sono circa la nove, è il giorno della settimana in cui ci si muove per andare verso i villaggi beduini. Si prepara l’attrezzatura, si caricano l’apparecchio ecografico, diversi dispositivi medici, ed è Vera a pensare anche al pranzo, per tutti, qualche focaccia e frutta, si sa quando si parte ma non si sa l’ora del ritorno, dipende dalle donne che aspettano, da quante saranno, loro e i loro bambini.
I villaggi nel deserto
Non si va molto lontano da Betlemme, ma lo scenario cambia totalmente: siamo nel deserto che circonda la città, il pulmino procede attraverso un territorio sassoso, in cui si alternano villaggi beduini e insediamenti di coloni israeliani. Sono tre le “stations”, i punti di sosta, che la clinica mobile dovrà effettuare, Kisan è la prima, poi si arriverà a Rawaen e infine a Rashaydeh, la più grande ed affollata. Molte di queste donne, in pesanti abiti tradizionali, e a volte interamente velate, aspettano in fila per ore il pulmino, si riparano dal sole negli ambulatori, o all’ombra degli alberi, laddove non esistono altre strutture, come nel caso di Rawaen. Arrivano dai vicini villaggi beduini, a volte dopo una camminata lunga chilometri, spesso in stato di gravidanza avanzato, o con neonati o bambini piccolissimi al seguito. “Aiutiamo tutte le donne che non posso raggiungerci in ospedale – spiega Vera – soprattutto le più povere, che vivono una grave condizione socioeconomica”, il che non permette il più delle volte neanche di avere le scarpe per i bambini, per questo, oltre ai farmaci, spesso vengono distribuiti anche vestiti.
La violenza domestica, tra i peggiori mali
“Fanno chilometri a piedi – prosegue l’infermiera – ma è l’unico modo per loro di farsi visitare. Arrivare in ospedale è un problema, gli abitanti di qui non sono autorizzati a viaggiare in macchina e questo crea tante tragedie, perché spesso arrivano a parto già iniziato, il che purtroppo può creare danni irreversibili ai bambini. Noi le preghiamo di correre in ospedale non appena sentono il dolore, proprio perché è difficile per loro arrivare in poco tempo, ma spesso non ci ascoltano, arrivano molto dopo e purtroppo a volte la situazione è irreparabile”. “Noi – aggiunge il pediatra Mo’tasem – insegniamo loro cosa devono fare se hanno dolore, se sanguinano”. Tutte le pazienti hanno la loro cartella clinica, e tutte sono ben conosciute dall’equipe, perché si fanno visitare regolarmente, cercano l’aiuto di medici e infermieri. Si fidano di loro, si sentono al sicuro. I problemi sono tanti, legati alla gravidanza, alla menopausa, e, in molti casi, alla violenza domestica. “I casi di pressione alta sono tanti – continua Vera – queste donne soffrono, soprattutto a causa della violenza degli uomini, i loro mariti le colpiscono, le picchiano duramente. Soffrono di diabete e di ipertensione a causa del grave stress, per la violenza e per le condizioni in cui vivono. Ci raccontano i loro problemi, si confidano, mi conoscono, non hanno paura di me e se posso aiutarle le faccio”.
La maternità precoce
Un altro fattore che incide molto sulla vita e sulla salute di queste donne è legato alla giovane età delle ragazze al momento del matrimonio, anche al di sotto dei 15 anni, il che significa per loro arrivare ad essere poco più che ventenni ed essere madri anche di sette figli. Mafar ha compiuto da poco 18 anni, ma ne dimostra molti di meno. È una piccola e vivace ragazza, con occhi accesi e molto socievole, il suo inglese è stupefacente, imparato sui banchi di scuola, lasciata a 16 anni, ma anche grazie ai film. Mafar è emozionata e felice, è al quinto mese di gravidanza, è il suo primo figlio, per seguire il marito nel villaggio ha lasciato Jerico e la sua famiglia di origine, ma non le pesa, qui ha un’altra parte dei suoi parenti, perché suo marito è anche suo cugino di primo grado. E questo è un altro grave problema di questi luoghi: i matrimoni tra consanguinei, altra piaga della comunità beduina, che fa sì che i bambini al momento della nascita presentino molti casi di malformazioni, malattie genetiche e metaboliche. “’ È una questione grave– spiega il pediatra – noi spieghiamo loro i rischi e ne sono consapevoli, ma la cultura è più forte del pericolo”. E quando i bambini nascono sani, c’è poi la povertà a pregiudicarne la salute e la crescita, soffrono di problemi respiratori, di gastroenterite, non sono nutriti in modo adeguato il che condiziona fortemente lo sviluppo.
22 anni di incessante attività
Dopo diverse ore si rientra in ospedale e si ritorna nei rispettivi reparti, consapevoli di aver, ancora una volta, portato sollievo a donne e bambini altrimenti lasciati a loro stessi. “Siamo grati all’ospedale – è il pensiero comune degli operatori sanitari – perché ci dà la possibilità di aiutare queste persone, donne, bambini e neonati, e siamo felici di dare questo messaggio alle persone”. Sono 22 anni che la clinica mobile assiste queste popolazioni, che non è stata fermata neanche dall’epidemia di Covid, le cose negli anni sono migliorate, molte di queste ragazze studiano, c’è addirittura chi frequenta l’università, ma soprattutto queste donne riescono a capire e a difendere il loro diritto alla salute e al benessere, loro e dei loro piccoli.