Michele Raviart – Città del Vaticano
Beirut. Ore 18.08 del 4 agosto 2021. La prima esplosione è come una bomba, un rumore a cui purtroppo la capitale libanese è abituata, dopo due guerre civili. Poco dopo arriva la seconda, ancora più forte. A detonare sono 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio, lasciate apparentemente incustodite in un magazzino del porto dal 2013. L’onda distruttiva uccide oltre duecento persone, seimila i feriti, 300 mila gli sfollati.
Un’onda devastante
“Ero a casa dei miei amici quando ho sentito la prima esplosione”, testimonia a Vatican News Tony Mikhael, imprenditore dei media libanesi. “Abbiamo pensato o a un bombardamento aereo o a una bomba, perché purtroppo noi siamo abituati a questo in Libano, da più di quarant’anni. Mi sono affacciato alla finestra per vedere se c’era del fumo o qualcosa da vedere e dopo è arrivata la seconda esplosione che è stata enorme”. “Tutto il vetro della finestra mi è scoppiato in faccia”, ricorda, “e l’esplosione mi ha buttato contro il muro. Allora sono corso a nascondermi perché dopo l’esplosione è arrivata la pressione e il vento che ha travolto tutto. Mi sono nascosto tra due muri di un corridoio e ho visto che il sangue mi stava scendendo dalla testa e dalle mani e poi ho sceso le scale perché tutti gli ascensori erano fuori uso”.
Distrutti anche gli ospedali
Le strade del quartiere di Achrafieh, dove Mikhael si trova, sono piene di feriti e di gente che cerca di accompagnarli al vicino ospedale di San Giorgio. “Lì ho sentito prima le urla della gente, che non riesco a dimenticare”, ricorda, poi “le urla che provenivano dal pronto soccorso dell’ospedale che era tutto distrutto. I medici urlavano: ‘dovete andare in un altro ospedale! Dovete andare in un altro ospedale!’Avevo una macchina parcheggiata lì vicino e ringraziamo Dio è partita. Ho cercato in altri due o tre ospedali cercandone qualcuno per curarmi, fino a quando sono riuscito fuori Beirut e ho trovato un pronto soccorso che mi ha salvato”.
I silos del porto sono ancora inagibili
Ad un anno di distanza le conseguenze dell’esplosione sono ancora una ferita aperta nella città di Beirut. Lo testimonia, simbolicamente, la condizione dei tre silos di stoccaggio alimentare del porto, i più grandi del Medio oriente e decisivi per l’approvvigionamento del Paese, che dipende all’85% dalle importazioni di cerali. Sono ancora distrutti e pericolanti, con ventimila tonnellate di grano ancora sparse nell’area a marcire tra i topi. Uno specchio della crisi economica che devasta il Paese.
Tra ricostruizione e ricerca di giustizia
Tuttavia la ricostruzione, spiega ancora Mikheal “procede abbastanza bene anche se l’unica cosa che ci farà guarire è la giustizia. Se non c’è giustizia nessuno guarirà. Anche se i palazzi sono ricostruiti e la gente sta rientrando nelle loro case distrutte però questo non ci guarirà se non c’è giustizia”. L’inchiesta giudiziaria per trovare i responsabili del disastro è ancora in corsa e il nuovo giudice a capo delle indagini, Tareq Bitar, cerca ancora di ottenere l’autorizzazione per poter ascoltare nove personalità di vertice dell’establishment libanese, tra cui ex-ministri, generali e il premier uscente Hassan Diab.
Un futuro di rinascita
Tanto, in questo contesto, è ancora l’aiuto reciproco tra i cittadini di Beirut, e in particolare di giovani, attivi fin da subito. “Questa è l’unica cosa che ci dà conforto in Libano”, sottolinea ancora l’imprenditore: “è la solidarietà dei giovani libanesi che hanno lasciato tutto – l’anno scorso eravamo sotto il lockdown per il Covid-19 -e hanno rischiato la loro vita e quella dei loro parenti. Sono scesi in strada e sono stati gli unici che hanno dato una mano ai feriti e a chi ha avuto la casa distrutta. Questo ci dà molta speranza che questo Paese rinascerà di nuovo. Questi giovani, questi ragazzi hanno fatto di tutto per ricostruire e dare conforto a questa gente”.