ANDREA TORNIELLI
La costituzione apostolica Praedicate Evangelium sulla Curia romana pubblicata sabato 19 marzo sistematizza un percorso di riforme originate dalla discussione del pre-conclave 2013 e già in gran parte attuato negli ultimi nove anni.
È un testo che approfondisce e rende effettive le direttrici del Concilio Ecumenico Vaticano II, che ebbe come suo scopo originario proprio la risposta alla grande domanda su come annunciare il Vangelo in un’epoca di cambiamenti che si sarebbe poi rivelata – come sottolinea spesso Francesco – un cambiamento d’epoca. L’unificazione in un unico dicastero guidato direttamente dal Papa dell’antica e strutturata congregazione di Propaganda Fide e del giovanissimo Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, sta a indicare la priorità data all’evangelizzazione espressa nel documento fin dal titolo. Come testimoniare la bellezza della fede cristiana alle nuove generazioni che non parlano né comprendono i vecchi linguaggi? Come far sì che il lievito del Vangelo torni a fermentare sia la pasta delle società un tempo cristiane sia quella delle società che ancora non conoscono Gesù Cristo? La Chiesa che si fa dialogo per evangelizzare è stato il leit-motiv degli ultimi pontificati e ora questo aspetto viene ulteriormente sottolineato anche nella struttura della Curia romana. Curia che non è un organismo a sé stante, un “potere” di governo sulle Chiese locali, ma una struttura al servizio del ministero del Vescovo di Roma, che agisce in suo nome, su sua indicazione, esercitando una potestà “vicaria” di quella del Vicario di Cristo.
Un secondo elemento significativo della nuova costituzione è lo sviluppo di un auspicio presente nei testi conciliari circa il ruolo dei laici. Francesco ricorda nel Preambolo che “Il Papa, i Vescovi e gli altri ministri ordinati non sono gli unici evangelizzatori nella Chiesa… Ogni cristiano, in virtù del Battesimo, è un discepolo missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù”. Da ciò deriva il coinvolgimento di laiche e laici nei ruoli di governo e di responsabilità. Se “qualunque fedele” può presiedere un dicastero o un organismo curiale, “attesa la peculiare competenza, potestà di governo e funzione di quest’ultimi”, è perché ogni istituzione della Curia agisce in virtù della potestà affidatale dal Papa. Questo passaggio, già in atto, si innesta nella teologia conciliare sul laicato. L’affermazione contenuta nella nuova costituzione apostolica rende evidente che un prefetto o un segretario di dicastero che siano vescovi, non hanno autorità in quanto tali, ma solo in quanto esercitano l’autorità che è stata loro conferita dal Vescovo di Roma. E questa potestà, nell’ambito della Curia romana, è la stessa sia che a riceverla sia un vescovo, un prete, un religioso, una religiosa, un laico o una laica. Viene così a cadere la specificazione contenuta al numero 7 della costituzione apostolica Pastor Bonus, l’ultima riforma strutturale della Curia romana realizzata durante il pontificato di san Giovanni Paolo II, dove si leggeva che “gli affari, i quali richiedono l’esercizio della potestà di governo, devono essere riservati a coloro che sono insigniti dell’ordine sacro”.
Si realizza così, pienamente, quanto è stato stabilito dal Concilio ed è stato già recepito dalle leggi canoniche, dove si riconosce che in forza del battesimo fra tutti i fedeli “vige una vera uguaglianza nella dignità e nell’agire”.