Marina Tomarro – Città del Vaticano
È di almeno 15 morti, 400 dispersi, 560 feriti e 45 mila sfollati il bilancio del devastante rogo che ha colpito le baracche di un campo di profughi Rohingya a Cox’s Bazar, in Bangladesh. Lo ha riferito l’Unhcr, l’organizzazione Onu per i rifugiati, chiarendo che le cifre non sono ancora definitive. Al momento è in corso un’indagine sulle cause dell’incendio, ancora sconosciute.
Anche bambini tra i feriti
Il rogo è il terzo in quattro giorni a colpire i campi dove sono ospitati i membri della minoranza musulmana del Myanmar, in fuga dalla repressione dell’esercito birmano. Le fiamme hanno distrutto finora 9.500 baracche. I Rohingya rifugiati in Bangladesh sono quasi un milione, e vivono in condizioni precarie nei 34 campi presenti nel distretto di Cox’s Bazar. Intanto l’Unicef ha mobilitato team sanitari per il supporto di primo soccorso e volontari per evacuare i rifugiati. Mentre la situazione continua ad evolversi, i primi resoconti indicano che ci sono bambini tra i feriti e che ci sono anche piccoli che risultano separati dalle loro famiglie. ”Il personale dell’Unicef per la protezione dell’infanzia e le organizzazioni partner – ha dichiarato Tomoo Hozumi, rappresentante dell’Unicef in Bangladesh – stanno lavorando per assistere i bambini in difficoltà, compresi quelli separati. I nostri partner stanno anche consegnando aiuti di emergenza e acqua potabile pulita”.
“Sciopero del silenzio” in Myanmar
Intanto in Myanmar oggi “sciopero del silenzio” organizzato degli oppositori. Tutti in casa, con i negozi chiusi e nessun veicolo nelle strade. Intanto, mentre le autorità hanno rilasciato 600 attivisti, il numero di vittime durante le repressioni sale a 261. Tra queste una bambina di sette anni, che a Mandalay, è stata colpita in casa da un proiettile sparato dalle forze di sicurezza all’esterno della sua abitazione.
Cartas: si allontana la speranza di una soluzione per i Rohingya
Sulla situazione dei profughi Rohingya Vatican News ha raccolto la testimonianza di Beppe Pedron, coordinatore regionale Asia meridionale della Caritas italiana.
R.- “La situazione è molto delicata e in realtà i numeri sono ancora molto fluttuanti, nel senso che diverse agenzie danno diverse cifre perché il conto reale delle vittime della devastazione si potrà avere purtroppo solo tra qualche giorno, forse tra un paio di settimane. Si parla di sicuro di 15 morti e di 400 dispersi, ma le persone colpite che hanno perso la casa, completamente bruciata o comunque danneggiata sembra siano molte di più. L’ultimo report che ci è arrivato dei nostri colleghi di Caritas Bangladesh, parla di 87mila persone che hanno in qualche modo ha avuto la casa o completamente distrutta o danneggiata. Quando parliamo di casa parliamo ovviamente di quelli che vengono chiamate “shelter”, ovvero dei rifugi dove queste persone in realtà vivono ormai da anni. Stiamo parlando di una popolazione che nel solo distretto di Cox’s Bazar che quindi non è un campo, ma è un distretto amministrativo del Bangladesh, è di quasi un milione di persone rifugiate Rohingya, divisi in diversi campi. Per fortuna non tutti i campi sono stati colpiti da questo incendio, però il danno è veramente immenso, anche perché ricordiamo che quelle baracche, che sembra poco o niente, era tutto per queste persone.
Quando si racconta di questi campi e di queste case di cosa stiamo parlando? In che modo vivono queste persone?
R. – Queste persone vivono in maniera precaria e assolutamente congestionata in termini di popolazione, perché queste case sono una adiacente all’altra, motivo per cui quando è scoppiato questo incendio è dilagato in maniera rapidissima. Sono appunto molto vicine, ma anche costruite con materiali recuperati localmente, come bambù, legno e poi delle lamiere a copertura. Le persone vivono comunque chiuse all’interno di questi campi, infatti ancora una volta questo incendio ha fatto emergere come le recinzioni in filo spinato abbiano impedito le persone di fuggire, causato danni e ulteriori feriti. Ancora una volta le organizzazioni umanitarie hanno fatto appello al governo, perché rimuova queste recinzioni che sono in teoria a protezione, ma in realtà chiudono all’interno dei campi le persone. Le condizioni di vita sono quindi difficili, precarie e assolutamente sottoposte alle problematiche sanitarie di questo tempo ma anche ambientali, come appunto questo incidente, ma anche il monsone o il caldo estremo, che c’è in questo periodo.
Come Caritas in che modo cercate di portare sollievo a queste persone?
R. – Attraverso il coordinamento di Caritas internationalis, molte Caritas nazionali tra cui quella italiana contribuiscono all’intervento che la Caritas locale del Bangladesh fa all’interno dei campi. Caritas Bangladesh è presente nei campi con del personale, con un programma specifico e supporta queste persone dandogli cibo, in termini di scuola, di sanità – che è così importante non solo in questo momento di pandemia di Covid-19, ma anche per la salute materno-infantile, quindi donne che spesso restano incinta molto giovani e poi i bambini e i anche la protezione delle persone più a rischio e vulnerabili: gli anziani, le persone con disabilità e tutte le categorie che sono ai margini di questo gruppo già estremamente emarginato e marginalizzato.
Quanto l’attuale situazione difficile che c’è in Myanmar dopo il golpe del primo febbraio, ha peggiorato la situazione dei Rohingya?
R. – In realtà è peggiorata di molto la speranza e la prospettiva di una possibile soluzione. Da anni si discute del rientro in patria di questi migranti, di questi profughi. Un rimpatrio che è stato concesso del Myanmar sulla carta per almeno una parte di essi, ovviamente a determinate condizioni. Ora tutto questo, che già prima era appunto solamente sulla carta, non è più solo un sogno diventare proprio una cosa impossibile e quindi influirà, molto sul futuro è sulla tranquillità nei campi, perché la prospettiva è veramente senza speranza. Sono persone che non hanno un posto dove rientrare, che già era un posto che non li accoglieva e non li riconosceva come cittadini dello Stato e hanno un posto in cui sono ospitate che è il Bangladesh, dove vengono accettati e accolti delle comunità locali che fanno molto, ma anche “sopportati” perché hanno un veramente importante sulle popolazioni locali. Quindi di per sì sono persone senza un posto dove stare e adesso grazie a questa situazione catastrofica, per una serie di motivi, del Myanmar anche senza un posto in cui sperare di poter tornare.