Chiesa Cattolica – Italiana

Antisemitismo e Palestina

Il gesuita David Neuhaus, professore di Scritture in Israele e Palestina, è un membro di lunga data della Commissione Giustizia e Pace della Chiesa cattolica di Terra Santa. In questo articolo riflette sulla catastrofe dell’antisemitismo per gli ebrei e i palestinesi e sulle attuali definizioni di antisemitismo che, a suo giudizio, delegittimano la lotta per la giustizia e la pace in Palestina oggi

David Neuhaus SJ

Qualche anno fa ho tenuto un corso sul conflitto israelo-palestinese in un’università cattolica statunitense. Durante una conversazione informale con alcuni colleghi ho espresso la mia forte disapprovazione delle scelte politiche del governo israeliano, la mia ferma opposizione alle strategie dell’esercito israeliano e la mia forte critica all’ideologia del sionismo politico. In un momento di stallo della conversazione, un distinto professore di letteratura inglese si è voltato verso di me e con voce preoccupata ha osservato: «È davvero terribile quello che gli ebrei stanno facendo!». Sono rimasto stupito dato che non avevo usato la parola «ebrei» in nessuno dei miei commenti sulla leadership civile e militare israeliana e sull’ideologia politica sionista. Ma a lasciarmi senza parole è stato quello che è venuto dopo. Con gentilezza, il professore ha aggiunto: «Ma ciò che davvero mi irrita sono le menzogne che gli ebrei diffondono sui tedeschi…una delle nazioni più civilizzate che abbia mai abitato il pianeta». La mia critica della leadership israeliana e dell’ideologia sionista aveva incoraggiato quel distinto accademico a raccontarmi le sue teorie di negazione dell’Olocausto e di cospirazione ebrea.

Purtroppo, oggi l’antisemitismo continua a essere una realtà. Infatti, ci sono tuttora ebrei che, per il fatto di essere ebrei, devono far fronte a offese contro la loro identità, discriminazione, ingiustizia e perfino violenza. Non lo si può negare. E, sulla scia della disastrosa guerra che perdura a Gaza tra israeliani e palestinesi, l’antisemitismo sembra aver raggiunto nuove vette. Tuttavia, la crescita dell’antisemitismo è legata anche alle politiche di un governo israeliano di destra che pretende di parlare per tutti gli ebrei, e che, apparentemente a loro nome, muove una guerra spietata contro i palestinesi. Da subito occorre affermare in modo forte e chiaro che la giusta lotta per porre fine alla guerra a Gaza, come anche all’occupazione e discriminazione in Israele/Palestina, non è per definizione antisemita. Né dovrebbe esserci un conflitto tra la lotta per la liberazione del popolo palestinese e quella per sradicare l’antisemitismo, ovunque esso si presenti. Di fatto, la lotta contro l’antisemitismo e quella per la libertà e l’uguaglianza, i diritti e la dignità dei palestinesi dovrebbero essere viste come parte di un’unica lotta per un mondo libero da ingiustizia, razzismo e violenza di ogni tipo

Antisemitismo: una catastrofe per gli ebrei

L’antigiudaismo è stato tramandato per secoli nel discorso cristiano tradizionale largamente diffuso. Gli ebrei erano indicati come coloro che avevano ucciso Dio quando avevano crocifisso Gesù, e come ciechi poiché continuavano a negare che Egli era il Figlio di Dio e il Salvatore dell’umanità. Troppo spesso nei secoli gli ebrei sono stati discriminati ed emarginati, vittimizzati e perseguitati, assassinati e cacciati per via di un insegnamento di disprezzo che promoveva l’ostilità verso gli ebrei e l’ebraismo. Gli ebrei che cercavano di sfuggire all’antigiudaismo nel mondo cristiano naturalmente potevano accettare “la verità”e, diventando cristiani, venivano per la maggior parte assimilati nella comunità cristiana, sebbene dopo l’Inquisizione alla fine del XV secolo non fosse più garantito nemmeno questo.

L’antigiudaismo si trasformò in antisemitismo all’alba della modernità e acquisì nuovo impeto nella seconda metà del XIX secolo. Esclusione, discriminazione, scoppi di violenza e infine un genocidio orIl gesuita David Neuhaus, biblista ganizzato con precisione nei confronti degli ebrei in diverse parti d’Europa e anche altrove, non erano più basati su tropi logici, ma piuttosto su una retorica etnocentrica secolare che additava gli ebrei come perpetui o u t s i d e r, essenzialmente sovversivi, incapaci e non disposti a integrarsi e sinistramente ostili. Dall’essere etnicamente, geneticamente e biologicamente ebrei la conversione non offriva alcuna via di fuga. A partire dalla fine del XIX secolo e durante la prima metà del XX, milioni di ebrei sono stati assassinati e altri milioni sono stati sradicati, mentre l’antisemitismo si concretizzava in politiche statali, brutalità burocratizzata e in un genocidio meticolosamente pianificato. Gli impulsi patologici del nazionalismo etnocentrico e del populismo razzista misero catastroficamente fine a molte delle variegate culture ebraiche che per oltre due millenni avevano arricchito il continente europeo.

Gli ebrei che nel corso dei secoli erano rimasti attaccati alle loro diverse patrie europee sperando nella piena integrazione come eguali cittadini nella scia dell’emancipazione civile annunciata dalla Rivoluzione Francese del 1789 si ritrovarono troppo spesso costretti a scegliere tra morte ed esilio. Il culmine fu raggiunto durante la seconda guerra mondiale, quando milioni di ebrei furono assassinati dai nazisti e dai loro collaboratori in Europa, intere comunità furono cancellate e il centro del mondo ebraico restante fu trasferito in Palestina, negli Stati Uniti e in altre parti del Nuovo Mondo.

Una delle ideologie emerse in Europa verso la fine del XIX secolo nel quadro di queste sofferenze è il sionismo. Proponeva una soluzione alla cosiddetta “questione ebraica”. Cercando le proprie radici nella tradizione ebraica, in particolare nella Bibbia, formulò un nazionalismo a immagine e somiglianza dei nazionalismi europei che si stavano sviluppando in quel periodo. Sosteneva che gli ebrei erano una nazione come ogni altra nazione moderna, la cui patria era la Palestina. L’idea era di creare lì uno “Stato ebraico”, e nel 1896 il fondatore del sionismo politico, l’ebreo austro-ungarico Theodor Herzl, pubblicò un manifesto che aveva proprio quel titolo, Lo stato ebraico. Un anno dopo convocò il primo congresso sionista a Basilea, in Svizzera.

La migrazione moderna verso la Palestina iniziò sulla scia dei pogrom antisemiti nell’Impero Russo all’inizio degli anni Ottanta dell’ottocento. A partire dal XX secolo, alcuni migranti ebrei in Palestina iniziarono ad avanzare pretese sempre più esclusive sulla Palestina. Molti cercarono di sostituire gli arabi palestinesi invece di integrarsi nella società di lingua prevalentemente araba del Paese, composta da una maggioranza di musulmani oltre che da ebrei, cristiani ed altri. Il rivolo, poi diventato fiume e infine migrazione di massa degli ebrei verso la Palestina in seguito alle politiche genocide dei nazisti, furono aiutati e favoriti da alcuni europei che simpatizzavano per gli ebrei nella loro sofferenza. Molti sostenitori cristiani erano ispirati anche dalla loro lettura fondamentalista dei testi biblici e dalla non considerazione per le popolazioni indigene.

Mentre gli ebrei osservanti avevano sempre conservato una memoria e un legame spirituale con la terra d’Israele, il sionismo politico cercò di cavalcare l’onda del colonialismo europeo. Ciò si dimostrò particolarmente efficace quando i britannici conquistarono la Palestina nel 1917, dopo avere promesso agli ebrei un «focolare nazionale», come scritto nella Dichiarazione di Balfour, stilata poche settimane prima che la Palestina fosse strappata ai Turchi. Dal 1917 al 1948, sotto il mandato britannico della Palestina, i sionisti lavorarono instancabilmente non soltanto per giungere a una crescente presenza ebraica, ma anche per stabilire i simboli di istituzioni statali sotto la copertura del governo britannico. La popolazione ebraica aumentò velocemente da appena il 10 percento nel 1917 a più del 30 percento nel 1947, quando, sulla scia della Shoah, le Nazioni Unite decisero la spartizione della Palestina in uno Stato ebraico e uno Stato arabo. Sebbene gli ebrei fossero ancora una minoranza nel Paese, quella divisione attribuì loro il 56 percento della terra, mentre il 44 percento andò agli arabi, che rifiutarono la decisione di spaccare la loro patria.

Sulla scia della guerra del dare una risposta a tale quesito ad ogni modo non cambia la realtà causata da quegli eventi, ovvero la creazione di uno Stato definito ebraico e il conseguente confinamento dei palestinesi ai margini della storia. 1948, dopo la creazione dello Stato d’Israele e la conseguente nascita della realtà dei profughi palestinesi, a Israele fu riconosciuta la sovranità sul 78 percento del territorio della Palestina mandataria. Il rimanente 22 percento del territorio fu inglobato dalla Giordania (la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est) e dall’Egitto (la Striscia di Gaza). Questi territori furono occupati militarmente da Israele in seguito alla guerra del 1967. Oggi in Israele ci sono sette milioni di ebrei israeliani e due milioni di arabi palestinesi con cittadinanza israeliana. Nei Territori Palestinesi, che dal 1994 vengono amministrati in parte dalla cosiddetta Autorità Palestinese, ci sono cinque milioni di arabi palestinesi. Poco più di due milioni di loro (per il 70 percento profughi) vivono nella Striscia di Gaza, dalla quale Israele si è ritirata unilateralmente nel 2005. Nei territori che oggi costituiscono Israele/Palestina ci sono sette milioni di ebrei e sette milioni di palestinesi.

Antisemitismo: una catastrofe per i palestinesi

La catastrofe vissuta dagli ebrei in Europa durante la shoah, nel XX secolo divenne anche una catastrofe per i palestinesi. La Shoah è una macchia storica indelebile nella storia dell’umanità. Ma la Shoah e il Nakba, parola usata per descrivere la distruzione della società palestinese nel 1948, sono innegabilmente legati tra loro nella storia. Proprio come la Shoah è determinante per l’identità della maggior parte degli ebrei, il Nakba è inciso nella memoria dei palestinesi, è il ricordo di come furono sradicati e cacciati dalla loro patria, di come molte delle loro città e dei loro villaggi furono cancellati e una grande parte della popolazione divenne profuga nel 1948. Il Nakba continua a essere una realtà per i palestinesi nei campi profughi di Gaza, Cisgiordania, Giordania, Libano e Siria, come anche per quanti sono rimasti nelle proprie case ma vivono sotto occupazione militare (nei Territori Palestinesi) e in una discriminazione sistemica come cittadini di serie B (in Israele). Molti sostengono che la Shoah non possa essere paragonata a nessun’altra tragedia umana, e qui non s’intende fare nessun confronto. Comunque, furono gli orribili eventi della Shoah a convincere molti che gli ebrei avevano bisogno di una terra e di uno Stato propri. Pianificando la realizzazione di tali obiettivi, in Palestina è stato dato inizio al Nakba. Doveva per forza essere così? Il dibattito accademico speculativo che cerca di dare una risposta a tale quesito ad ogni modo non cambia la realtà causata da quegli eventi, ovvero la creazione di uno Stato definito ebraico e il conseguente confinamento dei palestinesi ai margini della storia.

I sionisti ebrei e cristiani che promossero la migrazione degli ebrei in Palestina e vi coltivarono le aspirazioni ebraiche agirono in base alle loro convinzioni nel contesto delle impresa colonialista europea, ovvero la creazione di imperi in Asia e in Africa. Lord Shaftesbury, un politico britannico del XIX secolo, definì l’agenda per la Palestina «una terra senza popolo per un popolo senza terra». Nobilmente turbato dalla sofferenza degli ebrei nell’E u ro p a dell’Est, fu straordinariamente indifferente al destino delle persone che vivevano in Palestina, ovvero un popolo indigeno in un territorio che sarebbe presto stato colonizzato, solo un altro popolo non europeo da ignorare come se non In fondo, quanti lottano contro l’antisemitismo e quanti difendono i diritti dei palestinesi dovrebbero essere alleati, e non nemici, nel costruire un mondo migliore esistesse. Lord Arthur Balfour condivideva con lui le simpatie per la sofferenza degli ebrei e la noncuranza per il popolo palestinese, e la dichiarazione del 1917 che prese il suo nome cambiò il corso della storia in Palestina. Mentre la vittoria degli Alleati e la distruzione del governo nazista posero fine alla Shoah, il Nakba non è ancora terminato e la vita dei palestinesi continua alla sua ombra: esilio, occupazione e discriminazione.

Purtroppo l’antisemitismo ha trovato casa anche nel mondo palestinese, arabo e, più in generale, musulmano. I conflitti del profeta Maometto con le tribù ebraiche nel VII secolo sono ripresi in testi coranici che negli ultimi decenni sono stati branditi nel conflitto nel cuore del Medio Oriente. I tropi antisemiti europei sono stati fusi con questi versi strappati dal contesto e applicati agli ebrei, ovunque si trovino, nel nome della guerra contro Israele e il sionismo. L’estremismo sionista radicale antiarabo e l’antisemitismo arabo estremista promuovono un discorso stereotipato che non conosce compromesso, non conosce dialogo e porta solo a più violenza, distruzione e morte

Definire l’antisemitismo oggi

Mentre la lotta costante contro l’antisemitismo è una parte necessaria della lotta più ampia contro ogni forma di razzismo e xenofobia, alcuni hanno sviluppato definizioni dell’antisemitismo che delegittimano la lotta per la giustizia e la pace in Palestina. Si è fatto un uso politico cinico dell’antisemitismo per mettere a tacere i palestinesi e i loro sostenitori, accusando chi è critico nei confronti dell’i d e ologia sionista e della leadership israeliana di darsi all’antisemitismo.

In questo contesto, è interessante ricordare che l’unica voce nel gabinetto britannico del 1917 che si oppose alla Dichiarazione di Balfour fu quella del segretario inglese ebreo per l’India, Lord Edwin Montagu. Una delle ragioni per cui si oppose era che riteneva che la proposta che gli ebrei migrassero verso una “patria” lontana sarebbe piaciuta agli antisemiti, che così si sarebbero potuti sbarazzare dei loro vicini ebrei. Oggi, questa congiunzione di antisemitismo e sionismo è evidente quando partiti populisti di estrema destra, la cui retorica è xenofobica e razzista e spesso odora di antisemitismo, come il Fronte nazionale in Francia o partiti analoghi in Austria, Belgio e altrove, offrono un forte sostegno allo Stato d’Israele, sostegno coltivato da politici israeliani estremisti. Le loro simpatie “sioniste”s’intrecciano con il loro razzismo verso arabi e musulmani. Anche alcuni sionisti cristiani evangelici, specialmente negli Stati Uniti, tessono un discorso, suppostamente fondato sulla Bibbia, che è tradizionalmente antiebraico, antimusulmano e antiarabo, ma solidamente pro-israeliano e a sostegno della guerra contro i palestinesi.

Inutile dire che senz’altro c’è chi, mentre difende i diritti dei palestinesi, potrebbe essere incline al discorso e all’azione antisemiti. Criticare l’ideologia sionista, le politiche e le pratiche dello Stato d’Israele, i suoi organismi militari o statali e agire contro di essi, tuttavia, non è di per sé antisemitismo. Bisogna tracciare qui una linea sottile ma chiara per impedire che le legittime critiche diventino una diatriba razzista, ma il limite va tracciato. Diverse definizioni recenti cercano di farlo con maggiore o minore sottigliezza. Ma in ultima analisi lo si potrà fare con coerenza e con integrità morale solo quando la lotta contro ogni forma di razzismo, ingiustizia, violazione dei diritti umani includerà la consapevolezza sia delle tracce perniciose del persistente antisemitismo, sia delle miriadi di forme di sentimento antipalestinese e antiarabo, di islamofobia e di brutale dissimulazione dell’o ccupazione e della discriminazione in Israele/Palestina oggi. In fondo, quanti lottano contro l’antisemitismo, quanti difendono i diritti dei palestinesi e quanti promuovono la visione di una società in Israele/Palestina basata su giustizia, pace, libertà e uguaglianza dovrebbero essere alleati nel costruire un mondo migliore e non nemici gli uni degli altri.

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