All’evento, iniziato il 6 novembre, hanno preso parte docenti impegnati sul tema della migrazione, agenzie delle Nazioni Unite, organizzazioni religiose e umanitarie. Czerny: lo studio aiuta a recuperare un po’ di ciò che è andato perduto con l’abbandono forzato delle comunità di origine
Svitlana Duckhovych – Città del Vaticano
“Refugee and Migrant Education: Pathways for Hope, Understanding and Meaningful Integration” è il titolo del convegno che si conclude oggi, 8 novembre, a Roma, alla Pontificia Università Urbaniana, promosso dal Refugee & Migrant Education Network (Rme Network), dal Jesuit Refugee Service (Jrs), dallo Scalabrini International Migration Institute (Simi), dalla John Carroll University e dalla Villanova University-Strategic Initiative for Refugees and Migrants. All’evento, iniziato il 6 novembre scorso, hanno preso parte diversi docenti che si occupano di rifugiati e di migrazione, agenzie delle Nazioni Unite, organizzazioni religiose e umanitarie, studenti migranti e rifugiati. Attraverso panel e workshop, i partecipanti hanno esplorato insieme pratiche educative innovative che promuovono la comprensione reciproca, la partecipazione e l’integrazione di rifugiati, migranti e sfollati.
Czerny: chi perde una patria non ne avrà mai un’altra
Nel discorso di apertura dei lavori il cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale, ha ricordato la sua esperienza personale: aveva 2 anni e mezzo quando la sua famiglia è partita dalla Cecoslovacchia per raggiungere il Canada. Questo gli ha fatto capire che, «quando uno perde una patria, non ne avrà mai un’altra» perché anche se trova qualcosa che assomiglia alla casa rimarrà sempre «quel residuo di realtà che rifiuta di essere collocato nel presente, quel residuo che è per sempre la perdita di cultura, lingua, reti di relazioni, modi di interagire con la natura. In breve, è la perdita del mondo in cui ciascuno di noi capisce per la prima volta di essere una creazione benedetta da Dio».
Secondo il porporato, è l’istruzione che «ci offre la possibilità di ricuperare un po’ di ciò che è andato perduto con l’abbandono forzato delle nostre comunità di origine e di guadagnare ciò che è nuovo. In questo lungo processo di guarigione delle ferite — ha aggiunto Czerny — causate dalla violenza diretta e strutturale che segnano la migrazione forzata, e di apprendimento di come forgiare una speranza vitale in mezzo a una serie sempre crescente di motivi di disperazione, l’istruzione è la chiave».
Istruzione, “un buon investimento”
Anche per Anthony J. Cernera, fondatore della rete Rme, sono le persone istruite che danno un contributo migliore al bene comune. «Noi — spiega ai media vaticani — vediamo l’istruzione come lo strumento per una vita migliore e anche per aiutare a formare cittadini o persone appena arrivate in un paese affinché possano dare il loro contributo a quella società. È quindi un buon investimento. Le persone ben istruite, sia che nascano in un determinato paese sia che vi giungano, daranno un contributo migliore al bene della società. E poi, come cattolici, sappiamo che l’istruzione è anche qualcosa che Dio vuole per tutti noi, affinché possiamo leggere la Parola di Dio e ascoltarla meglio». Per Cernera, educazione e istruzione rappresentano la vocazione della sua vita: «Dato che sono stato rettore e professore — racconta — un giorno, era il 2015, mi sono chiesto cosa potessero fare le università per i rifugiati». Nel 2017 decise di organizzare a Roma un incontro sul tema Rifugiati e migranti in un mondo globalizzato.
Responsabilità e risposte delle università. L’evento portò alla fondazione di quella che oggi si chiama Rme Network, con più di quaranta membri, tra cui università, ong, organizzazioni no-profit e cooperative. Poi, furono promossi altri importanti incontri. Il compito principale di Refugee & Migrant Education Network, come spiega il docente statunitense, è già inscritto nel suo nome: fare rete «per sviluppare una migliore cooperazione e collaborazione tra individui, istituzioni e organizzazioni non governative che si occupano dell’istruzione dei rifugiati e dei migranti», i quali hanno diritto di andare dove vogliono ma «nessuno — aggiunge Tina M. Facca-Miess, professoressa al Boler College of Business (John Carroll University) — dovrebbe essere costretto a farlo».