Nella conferenza sul clima che si chiude domani a Baku, in Azerbaigian, è stato riconosciuto che i Paesi in via di sviluppo subiscono impatti sproporzionati dal cambiamento climatico. Si cerca un compromesso tra le posizioni dei Paesi del Nord e Sud del mondo, sugli aspetti decisivi del negoziato
di Pierluigi Sassi
C’è ancora una grossa “X” nella bozza di trattato che la notte scorsa è stata deliberata — resa pubblica questa mattina all’alba — dalla presidenza della Cop29. La cifra che andrà a sostenere lo sviluppo sostenibile dei Paesi poveri, e a riparare i danni di quelli più fragili, è ancora tutta da definire. Si è andati avanti fino a tardi, la notte scorsa, per elaborare un documento che cerca di tenere insieme le due posizioni in campo. Nord e Sud del mondo presenti nello stesso trattato, ma ancora con due diverse posizioni sugli aspetti decisivi del negoziato.
La bozza di accordo dichiara intanto, senza timore di smentita, principi di assoluta importanza. Solo per citarne alcuni: riconosce che i Paesi in via di sviluppo subiscono impatti sproporzionati del cambiamento climatico, mentre affrontano elevati costi del capitale, spazio fiscale limitato, elevati livelli di indebitamento e costi di transazione elevati; riconosce la necessità di attuare un nuovo e più ambizioso obiettivo finanziario globale per il loro sostegno da qui al 2035; decide che questa finanza sarà esclusivamente ad appannaggio dei paesi in via di sviluppo, con particolare riferimento a quelli particolarmente vulnerabili agli effetti negativi del cambiamento climatico e con notevoli limitazioni di capacità di intervento; stabilisce soglie minime di finanziamento di almeno 220 miliardi di dollari per i “piccoli stati” e di almeno 39 miliardi di dollari per i “paesi meno sviluppati”.
Insomma il menù va lentamente definendosi ma siamo tutti in attesa del piatto forte. Lo scorso anno a Dubai la presidenza adottò una strategia che si rivelò poi efficace. All’epoca la battaglia era tra petrolstati e resto del mondo e la materia del contendere era l’uscita definitiva dall’utilizzo delle fonti fossili. La presidenza della Cop28 fece discutere i contendenti, arroccati su posizioni inconciliabili fino all’ultimo giorno, per poi tirare fuori, a sorpresa, un trattato completamente diverso, costringendo tutti a scegliere se accettarlo o far fallire la Conferenza. Dopo una lunghissima notte la presidenza ebbe la meglio e l’accordo di Dubai stabilì, per la prima volta nella storia, l’uscita da carbone, gas e petrolio al 2050.
Certo è sconsolante pensare che per salvarci dal cataclisma climatico si debba ricorrere a certi stratagemmi. Ma come diceva Machiavelli a volte “il fine giustifica i mezzi”. A Baku si ha la netta sensazione che il comandante in capo di Cop29 stia adottando proprio la strategia emiratina, pronto a lanciare l’attacco della cavalleria solo quando la battaglia sembrerà ormai perduta. Altrimenti non si spiegherebbe perché tutti si stiano preparando ad allungare il soggiorno in Azerbaigian di ministri e delegati.
A frequentare la Cop si impara presto che dal tavolo dei “grandi della terra” non arrivano mai decisioni forti e chiare, in grado di rispondere alla crisi climatica con l’infinita capacità umana di trovare soluzioni per “soggiogare” la Natura. Dai consessi internazionali dobbiamo aspettarci piuttosto degli indirizzi, a volte accompagnati da interpretabili impegni nazionali, ma soprattutto utili a fornire un’idea di dove stia andando il mondo. Insomma le Cop non sono il navigatore che ti riporta a casa, ma solo una bussola che ti indica il nord. Sta ad ognuno di noi fare miracoli percorrendo la strada giusta per ritornare alla “casa comune”