Chiesa Cattolica – Italiana

Afghanistan un anno dopo: un baratro di miseria e abbandono

Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano

Dall’incredulità al panico, alla rassegnazione: le tre fasi della vita degli afghani nell’ultimo anno, dal 15 agosto del 2021, a seguito dell’uscita di scena della Nato dall’Afghanistan, dopo una missione ventennale, dopo la fuga del presidente Ashraf Ghani, il tracollo delle forze armate, la caduta di Kabul, e quindi il ritorno del Paese in mani talebane e la restaurazione dell’emirato Islamico dell’Afghanistan. A un anno dalle drammatiche scene viste all’aeroporto della capitale, preso d’assalto da migliaia di persone nel tentativo di unirsi agli occidentali in partenza con i voli organizzati dai loro governi, nessuno può aver dimenticato la disperazione di chi restava aggrappato alle ruote degli aerei, o dei bambini lanciati oltre il muro di recinzione dell’aeroporto, tra le braccia dei soldati americani. Fu quello il momento di passaggio, tra lo sconcerto di non poter credere all’improvviso crollo di tutto e il panico di non riuscire neanche a immaginare il futuro.

L’aeroporto di Kabul il 15 agosto del 2021

Il ricordo di Cairo

Alberto Cairo un anno fa era a Kabul, dove si trova tutt’ora. Dal 1990 vive nella capitale afghana come responsabile del programma Riabilitazione della Croce Rossa Internazionale e come collaboratore della ong italiana Nove, che si occupa di donne e di persone affette da disabilità. “L’anno scorso qui – racconta – c’è stato veramente un passaggio dalla grande incredulità al panico, che io vedevo giorno per giorno, quando la gente veniva piangendo a chiedermi cosa sarebbe accaduto, se i talebani si sarebbero comportati alla stessa maniera, come negli anni 90. A tutto questo poi, piano piano, è seguita la rassegnazione, ma non è facile perdere quello che si aveva e non sapere assolutamente cosa sarà il domani”. 

Ascolta l’intervista con Alberto Cairo

Carestia e povertà

Il domani, a un anno di distanza, è fatto di povertà e carestia, di una crisi umanitaria e una disastrosa situazione economica senza precedenti. Oltre al fatto di dover vivere nell’oscurantismo talebano. A distanza di poche settimane dalla presa di potere, i talebani si affrettarono a promettere moderazione, mentre il presidente statunitense Biden reagiva alle critiche per il frettoloso ritiro delle truppe americane spiegando come il ritorno al potere dei talebani fosse conseguenza della resa degli afghani stessi. Dopo un rapido mea culpa della comunità internazionale, per aver sbagliato nella questione afghana, la promessa internazionale fu quella di non abbandonare ma il Paese, che invece oggi fa i conti con un forte isolamento.  “La situazione è disastrosa  racconta ancora Cairo – gli aiuti internazionali, che prima arrivavano direttamente al governo, e che in qualche modo facevano funzionare la macchina pubblica, sono stati sospesi. Ora il denaro che arriva è tutto quanto convogliato attraverso le organizzazioni internazionali umanitarie, però non è certamente la stessa quantità di soldi. La vita è diventata carissima, il ceto medio è scomparso, tantissime persone, che prima erano impiegate nel pubblico o nel privato, oggi si arrabattano in qualche maniera, cercando di fare qualsiasi lavoro e venendo a supplicare: faccio le pulizie, faccio qualsiasi lavoro pur di poter sopravvivere”.

In Afghanistan le donne sono tornate invisibili

Il destino delle donne

Le organizzazioni internazionali denunciano la mancanza di cibo e la fame di milioni di bambini, un milione dei quali è a rischio malnutrizione acuta grave, e poi la grave situazione femminile. “Le donne, e con loro tutta la società civile, hanno perso tantissimo – prosegue Caio – sebbene i talebani a differenza di venti anni fa abbiano aperto ad alcune concessioni. Oggi, ad esempio, non c’è divieto di tv o Internet, ma tutto è sottoposto a forte censura”. Del resto i talebani di oggi, pur con il ricambio generazionale, mantengono una ideologia di base che vuole escludere le donne dalla vita pubblica, dalle scuole secondarie, da tutto. 

I giovani, la speranza di padre Moretti

A concludere la vita della missione internazionale in Afghanistan fu l’applicazione dell’accordo di Doha, siglato nel 2020 in Qatar tra i talebani e gli Usa di Donald Trump, con il quale si disponeva il ritiro delle forze armate statunitensi dal Paese entro il 31 agosto 2021. Per il barnabita padre Giuseppe Moretti – missionario in Afghanistan dal 1990 al 2015 e a partire dal 2002 superiore della Missio sui iuris a Kabul – i venti anni archiviati lo scorso ferragosto “hanno lasciato un’impronta, hanno aperto una finestra di speranza, se si guarda alle manifestazioni organizzate dalle donne a dispetto dei talebani”. I semi sono stati gettati: è sua convinzione che soprattutto i giovani, in quelli che hanno lasciato il Paese e che studiano altrove, Italia compresa, così come in quelli che sono ancora in Afghanistan, vadano supportati “per potere essere loro – spiega ancora il religioso – i costruttori dell’Afghanistan moderno”, segnato da “un islam illuminato, che cammini sulla via della modernità”.

Ascolta l’intervista con padre Giuseppe Moretti

Gli aiuti internazionali

Il punto rimasto in sospeso per la comunità internazionale, in questi mesi, è stato come poter aiutare la popolazione afghana senza sovvenzionare i talebani, il cui governo a oggi non è ancora stato concretamente riconosciuto da alcun Paese, nonostante alcuni Stati abbiano accolto diplomatici inviati dai talebani. L’embargo sta strangolando la nazione, è inoltre evidente un certo disinteresse da parte del mondo. “Penso che sia difficile per un governo democratico approvarne uno composto anche da esponenti del terrorismo internazionale – aggiunge padre Moretti – allo stesso tempo c’è l’altra strada, quella dell’assistenza umana, che va oltre il progetto o l’idea politica. Questo popolo è in una situazione di estrema necessità e l’indifferenza è sempre ignominiosa, quindi, anche non avendo sedi diplomatiche in loco, c’è però la possibilità di aiutare la gente che è innocente, perché gli afghani non sono tutti talebani. E io credo che questo sia possibile attraverso le organizzazioni internazionali e lì ci sono”. L’Afghanistan, conclude il barnabita, “non sarà il Paese più ambito dalle politiche internazionali, però per 20 anni ci siamo stati con la Nato e con tutte le ambasciate aperte. Insomma, questo Afghanistan mi sembra un po’ troppo dimenticato”. Analisi condivisa da Alberto Cairo, che denuncia un forte e assoluto senso di abbandono, vissuto sin da subito. “La comunità internazionale deve parlare con le autorità, deve trovare un modo di continuare ad aiutare – ripete Cairo in termini prettamente umanitari e non politici – l’embargo contro il governo, considerato terrorista, alla fine fa soffrire il popolo. Se non si vuole riconoscere il governo, però che almeno si riprendano gli aiuti alle persone, che stanno soffrendo veramente”.

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