Marco Guerra – Città del Vaticano
Il ritiro delle truppe Nato dall’Afghanistan è iniziato. A darne notizia una nota dell’Alleanza Atlantica diffusa ieri che parla di un “processo ordinato e coordinato”. L’iniziativa è quindi cominciata in anticipo di due giorni rispetto alla data del 1° maggio, indicata alcune settimane fa dagli stessi alleati.
Priorità su sicurezza truppe
“La sicurezza delle truppe sarà una priorità assoluta in ogni fase del percorso e si stanno adottando tutte le misure necessarie per mantenere il personale”, si legge nel comunicato. Per questo motivo non saranno dati “dettagli operativi, inclusi i numeri delle truppe o le tempistiche di ciascun Paese”. “Qualsiasi attacco talebano durante il ritiro riceverà una risposta energica, si afferma da parte Nato. Abbiamo in programma di completare il nostro ritiro entro pochi mesi”, conclude la nota.
Il bilancio della guerra
Secondo quanto riferito da un alto funzionario americano, il ritiro di tutte le truppe si concluderà prima del ventesimo anniversario degli attentati dell’11 settembre 2001. Si conclude così ufficialmente quella che viene considerata la più lunga guerra in cui siano mai stati impegnati gli Stati Uniti, che, secondo le stime di diversi istituti, ha prodotto circa 66mila vittime tra l’esercito afghano, 3500 tra le fila della coalizione internazionale e almeno 50mila tra i civili. La guerra ha poi costretto 2,7 milioni di afghani a fuggire all’estero, soprattutto in Iran, Pakistan ed Europa, stando alle Nazioni Unite. Altri 4 milioni sono gli sfollati interni su una popolazione totale di 36 milioni di abitanti.
Il costo del conflitto
Gli Stati Uniti hanno speso un totale di 2,26 trilioni di dollari per una vertiginosa serie di spese, secondo il progetto Costs of War. Molti degli aiuti per la ricostruzione e lo sviluppo non sono stati assorbiti in modo corretto dall’Afghanistan e alcune organizzazioni riferiscono di ospedali e scuole di nuova costruzione rimasti vuoti ed altre infrastrutture cadute in rovina. E, nonostante l’impegno per l’addestramento alle forze di sicurezza afghane, i talebani controllano ancora alcune parti del territorio.
Aiuti condizionati ai diritti
“Anche i talebani sanno che questo martoriato Paese ha bisogno di un massiccio aiuto finanziario internazionale, che non ci sarà certamente se i talebani dovessero tornare indietro sui diritti e gli standard democratici raggiunti”, ha detto il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, secondo il quale nel Paese “molto è stato raggiunto”, dalle aspettative di vita all’accesso delle donne all’educazione scolastica.
Carati (Ispi): ritiro dettato dall’agenda americana
“E’ un ritiro dettato dall’agenda americana, un disimpegno iniziato con Obama, perseguito da Trump e Biden continua questa politica perché gli Usa hanno esaurito le chance di vincere la guerra”, spiega a VaticanNews Andrea Carati, ricercatore dell’Ispi e docente di Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Milano. “L’accordo con i talebani – prosegue – per il ritiro nel maggio del 2021, firmato dall’amministrazione Trump nel febbraio del 2020, è stato un po’ l’ultima carta, gli americani si ritirano infatti per ragioni di politica interna più che internazionale, dato che l’accordo non è condizionato da alcun criterio di stabilità dell’Afghanistan”.
Accodo governo-talebani ancora lontano
L’esperto dell’area sottolinea poi che il negoziato tra Talebani e Governo afghano è ancora in alto mare e rischia di essere complicato dal ritiro della Nato. “La Nato lascia un Afghanistan migliore rispetto a 20 anni fa – afferma ancora Carati – ma peggiore di quello di cinque o sei anni fa, quando è cominciato il ritiro del grosso delle truppe; dalla fine della missione Isaf nel 2014 le condizioni politiche, sociali ed economiche sono andate via via peggiorando”. Secondo Carati si tratta di una sconfitta sul piano strategico, perché, per prevenire nuovi attacchi terroristici sul suolo americano e sradicare la rete terroristica di al Qaeda, sono state lanciate due campagne militari lunghissime impegnative in Afghanistan e in Iraq; “si è confusa una campagna contro il terrorismo con una guerra di tipo tradizionale su vasta scala”.