Antonella Palermo – Città del Vaticano
Le conseguenze del sisma che ha colpito l’Afghanistan sono incalcolabili: è il terremoto più letale qui registrato in due decenni. Le condizioni impervie dell’area colpita e le difficoltà strutturali ed economiche del Paese rendono le operazioni assai complesse.
Difficile contare i danni
Gli abitanti dei villaggi hanno seppellito i loro morti e scavato a mano tra le macerie in cerca di sopravvissuti. Calcolare il bilancio delle vittime è quanto mai difficile viste le difficoltà di accesso e comunicazione con i villaggi colpiti. Molte agenzie umanitarie internazionali si sono ritirate dall’Afghanistan quando i Talebani hanno preso il potere lo scorso agosto e quelle rimaste si stanno affannando a portare forniture mediche, cibo e tende nella remota zona coinvolta dal sisma, utilizzando strade di montagna malridotte e peggiorate dalle piogge.
Coordinare l’assistenza umanitaria
Le agenzie dell’ONU stanno affrontando una carenza di fondi per l’Afghanistan pari a 3 miliardi di dollari per quest’anno. La Germania, la Norvegia e diversi altri Paesi hanno annunciato l’invio di aiuti per il terremoto sottolineando tuttavia che lavoreranno solo attraverso le agenzie delle Nazioni Unite e non con i Talebani, che nessun governo ha ancora riconosciuto ufficialmente. Camion di cibo e altri beni di prima necessità sono arrivati dal Pakistan e aerei pieni di aiuti umanitari sono atterrati dall’Iran e dal Qatar. L’India ha inviato camion e un team tecnico nella capitale, Kabul, per coordinare la consegna dell’assistenza umanitaria. Nella provincia di Paktika il terremoto ha scosso una regione di profonda povertà, dove i residenti si arrangiano a vivere nelle poche aree fertili tra le aspre montagne. Lo conferma nella nostra intervista Giovanni Tozzi, coordinatore logistico di Emergency, che da Kabul si è spostato a Lashkar Gah, nel sud del Paese, molto vicino all’epicentro:
La speranza di poter aprire una clinica
“In questo momento il nostro staff sta effettuando un sopralluogo nel distretto di Burmal, vicina all’epicentro, nella provincia di Paktika: una zona molto remota, fatta di villaggi arroccati sulle montagne in parte raggiungibili soltanto a piedi. Completamente distrutti. Dalle autorità locali i dati parlano di 1800 nuclei abitativi rasi al suolo”, spiega Giovanni. Emergency, in coordinamento con il Ministero della Salute e altre organizzazioni umanitarie sta valutando di poter aprire un punto di primo soccorso, una clinica direttamente a Burmal dove peraltro il presidio sanitario più vicino è a tre ore di macchina di distanza. “Ci siamo immediatamente attivati per supportare le operazioni di soccorso delle popolazione – precisa – mettendo a disposizione sette ambulanze insieme a personale sanitario e materiale medico. Abbiamo anche ricevuto i primi pazienti nell’ospedale di chirurgia di guerra a Kabul”.
Livello di bisogni senza precedenti
L’Afghanistan non è nuovo a questo tipo di cataclismi in una situazione sociale e politica già molto critica. “Sta soffrendo le conseguenze di una guerra di lungo termine – lamenta Tozzi – a cui si aggiunge la profonda crisi economica, il collasso del sistema bancario, la peggiore siccità degli ultimi trent’anni, per non parlare della pandemia da Covid. Si parla di 23 milioni di afghani a rischio di grave insicurezza alimentare”. Nella contingenza di questi giorni, va segnalata la presenza di detriti per le strade e di condizioni meteo avverse che rendono il tutto molto difficile. “Non è semplice accedere e muovere i pazienti”.
L’Afghanistan non sparisca dai riflettori
L’appello dell’organizzazione umanitaria è chiaro: “Noi sottolineiamo l’esigenza di tenere l’Afghanistan come una priorità nella agenda internazionale. La nostra speranza è che non rimanga lontano dai riflettori e che non diventi una crisi umanitaria dimenticata. Il rischio c’è ed Emergency è qua a darne testimonianza come abbiamo fatto nel corso di 23 anni alla popolazione”. La sfida generale continua ad essere enorme proprio per la stratificazione delle crisi che è fortissima, considerato anche “i venti passi indietro che abbiamo fatto nell’ambito del rispetto dei diritti umani”.