Alessandro Di Bussolo e Antonella Palermo – Città del Vaticano
La loro vicenda aveva scosso tutta l’Italia e anche il Papa: diciotto pescatori di Mazara del Vallo che su due pescherecci avevano gettato le reti in acque internazionali al largo della Libia per la pesca del gambero rosso, bloccati e sequestrati dagli uomini del generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Per 108 giorni, dal 1 settembre al 17 dicembre del 2020, sono stati detenuti e anche torturati nelle prigioni delle milizie di Haftar, che li ha usati come merce di scambio per trattare con il governo italiano e perorare la sua causa contro il governo di al-Sarraj, riconosciuto dalla comunità internazionale.
La parola di sostegno e la preghiera del Papa all’Angelus
Il 10 ottobre Francesco parlò dei pescatori di Mazara del Vallo “fermati da più di un mese in Libia” dopo la preghiera dell’Angelus, per rivolgere a loro e ai loro familiari sconvolti “una parola di incoraggiamento e sostegno”. “Affidandosi a Maria, stella del mare – disse il Pontefice dalla finestra del Palazzo Apostolico – mantengano viva la speranza di poter riabbracciare presto i loro cari”. E poi invitò tutti i fedeli presenti in Piazza San Pietro e i milioni collegati attraverso i media a pregare insieme “per i pescatori e per la Libia, in silenzio”.
“Centootto” al Cinema Troisi di Trastevere, a Roma
Il dramma del loro sequestro è diventato un docufilm di 50 minuti, dal titolo “Centootto” come i giorni di prigionia, prodotto dalla Fai Cisl e dalla rivista “Confronti”, che è già stato presentato in un evento collaterale alla Mostra del Cinema di Venezia, a settembre, e a novembre al Festival del cinema europeo di Lecce. Il 21 dicembre il documentario di Giuseppe Bellasalma, Michele Lipori e Claudio Paravati, viene presentato a Roma, alle 10.15, al Cinema Troisi a Trastevere, accompagnato da una mostra fotografica (aperta fino al 28 dicembre) e dalla presentazione del libro “La cala. Cento giorni nelle prigioni libiche” di Giueppe Ciulla e Catia Catania.
L’ armatore del “Medinea”: io l’unico riferimento per i familiari
Registi e autori del libro sono protagonisti anche di una tavola rotonda con i pescatori di Mazara e le loro famiglie, e moderata dal saggista e giornalista Goffredo Fofi. Tra loro anche Marco Marrone, l’armatore del peschereccio “Medinea”, che è stato il tramite tra le famiglie e le istituzioni in quei giorni terribili, e con alcuni parenti dei pescatori si è anche incatenato davanti a Montecitorio per chiedere al mondo politico maggior impegno nella liberazione dei sequestrati. Ecco come Marrone ha ricordato quei giorni a Vatican News:
Non nascondo tutta la paura e il terrore che avevo, però non potevo assolutamente mostrarlo alle famiglie, perché ero rimasto il loro unico punto di riferimento, in quanto i loro uomini erano sequestrati. Quindi mi trovavo ad essere la figura per loro in quel momento mancante, e ho cercato solo di essere la loro forza. Infatti con loro abbiamo deciso di fare quella lunga protesta a Roma, dove ci siamo incatenati e abbiamo dormito a terra, sotto la pioggia e il freddo, sperando che qualcuno ci ascoltasse e desse delle risposte alla nostra vicenda. Ma questo purtroppo per tantissimi giorni non è venuto perché noi sembravamo invisibili a Roma, e quindi la disperazione delle famiglie, i pianti, tutto il nervosismo che giustamente, insieme alla paura, cresceva, andava un po’ gestito. Poi le porte sono aperte un po’ quando il nostro Papa, una domenica, durante l’Angelus, ha pregato per i pescatori sequestrati in Libia. Da lì è stato un susseguirsi di attenzioni mediatiche e questo ha permesso anche a tutti loro di avere una speranza in più che la vicenda magari potesse finire prima.
Quindi posso dire che sono stati 108 giorni veramente lunghi, interminabili, terribili con un’alternanza di speranza e delusione. Perché pensavamo: “Adesso sta finendo” e invece poi alla fine non si risolveva. Tutto senza poterli sentire, senza sapere se fossero vivi, se stavano bene, se mangiavano. Erano usciti in mare ad agosto, d’estate, in pantaloncini e magliette a maniche corte ed erano arrivati già al mese di novembre, poi dicembre. Non sapevamo nemmeno se avessero degli indumenti adatti. Quindi abbiamo vissuto veramente 108 giorni terribili. Perché le famiglie sono abituate a sentire la mancanza del proprio caro, perché quando stanno in mare stanno anche 40-45 giorni fuori. Però comunque ci sono notizie, si sentono per telefono, e chiedono a me armatore se ho sentito quelli della barca, se ho sentito il capitano e l’equipaggio. Hanno comunque sempre delle notizie, sanno che è il loro lavoro e le donne sono abituate un po’ a questo. Ma quella volta era diverso, perché oltre alla mancanza fisica, non avevamo notizie. Quindi alla fine si appoggiavano un po’ anche a me, sperando che potessi io risolvere la cosa, ma purtroppo non era nelle mie competenze.
Con quale stato d’animo vive o rivive l’incontro con il Papa e chi è il Papa per voi?
E’ un’emozione assoluta. Perché noi siamo stati, in quei giorni di permanenza a Roma per la protesta, all’udienza generale del Papa. E ricordo che siamo usciti in lacrime, con la speranza che il Papa potesse anche lui aiutarci o nella preghiera o nell’intervento. Quindi adesso pensare di poterlo reincontrare in un atmosfera, magari diversa, poi un periodo così festoso come il Natale, l’emozione è veramente tanta.
Il sindacalista: la pesca è un lavoro usurante, che va tutelato
L’ideatore del docufilm “Centootto”, Onofrio Rota, è segretario generale della Fai-Cisl, che rappresenta circa 200mila lavoratori dell’agricoltura e attività connesse, dell’industria alimentare, delle foreste, della pesca e del tabacco. Il sindacato aveva seguito da vicino la vicenda, dando supporto non solo morale alle famiglie dei pescatori che, esasperate da un’attesa che pareva interminabile, avevano deciso di protestare a oltranza a Montecitorio.
Onofrio Rota, come l’è nata l’idea di un docufilm sui pescatori di Mazara del Vallo e sul loro sequestro?
E’ nata dalla necessità di rappresentare quel dramma che ha coinvolto 18 lavoratori, una comunità, le loro famiglie e le istituzioni. Noi da anni come Fai-Cisl siamo impegnati nella rappresentazione del lavoro della pesca con tutte le sue difficoltà e quella è stata un’esperienza che ha segnato questi 18 pescatori, perché rimanere in Libia per 108 giorni, in una situazione di prigionia dura, ha provato non solo loro personalmente, ma le loro famiglie e tutta la comunità di Mazara del Vallo. E quindi la nostra federazione ha voluto realizzare un docufilm per lasciare una traccia, e da quella traccia impegnarci a diffonderla anche all’interno delle istituzioni per affrontare il tema delle acque internazionali e delle azioni di pesca.
Nel Press Book del docufilm “Centootto” voi lo definite il racconto di un’assenza: quella ordinaria dei 40 giorni in mare per la pesca del gambero rosso e quella straordinaria della prigionia in Libia…
Sì, i lavoratori escono nel Mediterraneo per la pesca del Gambero Rosso e i 40 giorni che erano destinati alla pesca si sono trasformati non un’uscita di lavoro, ma di prigionia e anche in alcuni casi, da come ci hanno raccontato i lavoratori, di torture che hanno subito durante quel periodo. E’ una storia estremamente drammatica che non si può raccontare come una battuta di pesca normale, ma come una situazione che ha trovato 18 persone in una situazione veramente allucinante.
Però è anche particolare il loro tipo di lavoro, perché nel 2021 dover vivere lontani da famigliari per più di un mese e avere solo quattro giorni per incontrare i propri cari non è semplice. Ed è una storia anche quella da raccontare…
Il lavoro della pesca è un lavoro duro, che in Italia coinvolge più di 20 mila persone e che è fatto da piccola e grande pesca, da piccole imbarcazioni che quotidianamente escono e rientrano a casa, e da barche che hanno strutture e armatori che fanno una pesca più strutturata con un’assenza dalla propria sede di lavoro abituale di parecchi giorni. E’ chiaro che chi accetta di fare questo lavoro sa che è un lavoro estremamente faticoso, che mette alla prova, che anche usura i lavoratori. Tanto è vero che siamo anche impegnati a classificare questo tipo di lavoro come lavoro usurante, che va tutelato non soltanto dal punto di vista pensionistico, ma anche per la sicurezza sul lavoro, visto che ancora a questi lavoratori non si applica completamente la legge 81 che parla proprio di sicurezza sul lavoro.
Ci parli brevemente delle tre storie dei protagonisti del docufilm. Qual è che l’ha colpita di più?
La storia che mi ha colpito di più è la storia di una mamma, di Rosetta (Ingargiola, n.d.r.) che ha un figlio che è un responsabile di una delle due imbarcazioni sequestrate, che è stato coinvolto in questa storia particolare. E dietro questa narrazione che lei fa dell’assenza di questo figlio emergono anche altre storie dentro la storia: il fatto di aver perso un figlio, di essere a una mamma sola, di una lunga tradizione di pescatori. Per cui tutta quella sofferenza che riemerge non soltanto per il dramma che si sta vivendo, ma per la storia che si è passata. E poi mi ha coinvolto anche l’armatore Marco (Marrone, n.d.r.)e la storia di una persona che seppur non coinvolto direttamente, è stato emotivamente provato nella sua incapacità a reagire adeguatamente per affrontare la situazione e di come ci si ha buttato all’interno della società, nella politica, nelle istituzioni, nel mondo dell’associazionismo per manifestare il grido di dolore, di sofferenza che la sua comunità e i suoi lavoratori stavano provando.
Questo grido di dolore, poi, è stato ascoltato anche grazie all’appello di Papa Francesco all’Angelus, per la loro liberazione. Quanto è stato importante per sbloccare una situazione che sembrava di stallo?
Sicuramente la presenza e la vicinanza di Papa Francesco è stata determinante. Tutte le diplomazie, sia quelle civili che religiose hanno dato un fortissimo contributo, affinché questa situazione si sbloccasse. E l’appello all’Angelus è stato un ulteriore atto di vicinanza del Papa a questa comunità di Mazara del Vallo che stava vivendo questo dramma, a questi pescatori e alle loro famiglie.
Cosa ha insegnato questa drammatica vicenda? C’è sempre il rischio che si ripeta, finché non si risolve il contenzioso con la Libia per le acque territoriali?
Ci ha insegnato tante cose, e questa è stata anche la motivazione, per cui ci siamo stati spinti a realizzare anche questo film. Perché non è soltanto una questione di cuore, ma anche una questione di testa. Nel senso che si va bene rappresentare il dramma di questi lavoratori, di questi famiglie, ma abbiamo voluto anche rappresentare quanto sia rischioso oggi per i nostri pescherecci gettare le reti nelle acque del Mediterraneo. Acque definite zone internazionali di pesca, nelle quali a volte purtroppo le imbarcazioni della nostra pesca sono purtroppo vittime di agguati, di sequestri, che a volte ci si traducono in “sequestri lampo”, che a seguito di un piccolo riscatto trovano delle soluzioni. Però questo solleva un problema serio, perché non è possibile che è un imbarcazione esca per un’azione di pesca e poi venga coinvolta in un sequestro, con tutte le conseguenze. Quindi l’appello forte in questo caso va rivolto non soltanto alla comunità politica nazionale, ma a tutta l’Europa, affinché le acque internazionali possono essere acque sicure per i nostri pescatori. E quindi sono necessarie azioni politiche anche con i Paesi del Nord Africa per rendere queste zone tranquille e sicure per i nostri pescatori e per i nostri armatori.