A Pisa il “Patto di comunità” di un quartiere che si apre all’accoglienza e al territorio

Vatican News

Come passare da una situazione di incomprensione e di conflitto ad un’alleanza tra persone e realtà associative per riqualificare un pezzo della propria città: è ciò che una coppia pisana ci racconta nell’intervista. Tutto è partito dalla necessità di unificare due parrocchie, molto diverse, in una unica Unità pastorale. Ne è nata un’esperienza di fraternità che si fonda sull’ascolto, che si potrebbe definire anche un’esperienza di sinodalità

Adriana Masotti – Città del Vaticano

Non è raro, anzi è sempre più frequente, che a causa del calo di sacerdoti e dell’innalzamento dell’età di quelli che ci sono, anche in Italia si verifichi la necessità di accorpare più parrocchie in Unità pastorali sotto un unico parroco coadiuvato a volte da altri sacerdoti. Non sempre la riorganizzazione delle diocesi in tal senso è però indolore.

L’esperienza di San Martino e San Marco a Pisa

E’ ciò che è accaduto quando, quattro anni fa, ad unificarsi sono state chiamate le parrocchie di San Martino e di San Marco a Pisa. La prima, di cui si ha notizia già dal 1067, si trova nel centro storico ed è abitata da persone di ceto culturale e sociale medio alto; la seconda anch’essa antica perchè menzionata nel 1153, ma situata in una periferia esistenziale in cui si concentrano disagi sociali ed economici. Difficile che possano stare insieme e, infatti, subito alcuni parrocchiani della chiesa di San Marco si fanno sentire ostacolando il processo di unificazione con articoli sui giornali e protestando con il vescovo. Da questa situazione parte l’iniziativa di un gruppo di laici per tentare di trovare una soluzione che non può che nascere dal dialogo e dall’ascolto di tutti. Nasce così un consiglio pastorale formato da persone di entrambe le parrocchie. I coniugi Luisa Bosi e Stefano Biondi, una famiglia del Movimento dei Focolari che fa parte della comunità di San Martino e San Marco, e che vive nel quartiere dove si trova quest’ultima chiesa, sono tra i primi a sentire l’esigenza di impegnarsi per gettare ponti e fare delle due parrocchie una sola comunità. 

La chiesa di San Martino a Pisa

L’accoglienza e l’accompagnamento di famiglie in necessità

Don Enrico Giovacchini, il parroco, sostiene lo sforzo intrapreso. Agli incontri e agli scambi seguono azioni concrete che portano i parrocchiani a conoscersi di più e a guardare, insieme, dentro e fuori il loro territorio. Si comincia facendo un censimento delle risorse materiali delle due parrocchie e delle capacità delle persone e delle diverse realtà associative presenti. Oggi in un appartamento ristrutturato tovano accoglienza 3 famiglie di rifugiati ucraini, in tutto 11 persone. E accogliere non significa solo dare una casa, ma accompagnare ognuno per tutto quello che richiede la vita, dalla salute alla scuola, al lavoro. In tanti si danno da fare e arrivano anche i finanziamenti necessari. Importante la collaborazione, per le famiglie ucraine, con padre Volodymir, il parroco greco cattolico di rito bizantino di Pisa.

Un progetto di rinascita dell’intero territorio

L’accoglienza non è l’unica azione, si vuole riqualificare il quartiere. Si costituisce un Tavolo per la Promozione Umana e l’Accoglienza e la rigenerazione del Territorio dell’Unità Pastorale San Marco e San Martino e si elabora un documento chiamato “Patto di Comunità” per la realizzazione di vari progetti tra cui un Centro di ascolto e mediazione del disagio sociale e sanitario, un Gruppo di acquisto solidale, un centro per il riuso di abiti/mobili/elettrodomestici; un laboratorio di tessitura; una sala multimediale per attività giovanili e per la famiglia.

La chiesa di San Marco a Pisa

Un’esperienza di fraternità nata dall’ascolto 

Quella di Pisa è un’esperienza in divenire, dicono Luisa e Stefano Biondi ai microfoni di Vatican News, mentre raccontano come si è arrivati alla situazione attuale del loro quartiere e i passi compiuti fin qui: 

Ascolta l’intervista a Luisa e Stefano Biondi

Stefano, di fronte ad una situazione in cui i rapporti tra le persone si fanno difficili, si può arrivare alla chiusura, oppure ci si può aprire al dialogo e esercitare l’ascolto. Vuoi avete intrapreso questa seconda strada, quella tanto raccomandata da Papa Francesco per tutta la Chiesa. Come vi siete mossi nel concreto del vostro territorio?

Quando, quattro anni fa, l’arcivescovo ha costruito questa Unità pastorale unendo due parrocchie molto diverse sotto un unico parroco, si sono manifestate subito difficoltà di convivenza. L’inizio è stato davvero un po’ controverso, difficile, perciò abbiamo dovuto attivare un ascolto paziente, una riconciliazione, un dialogo continuo. Questo ha portato alla costituzione di un unico Consiglio pastorale formato dagli appartenenti alle due realtà. E poi abbiamo unificato immediatamente tutte le attività: il catechismo, la San Vincenzo, tutto quello che facevamo. Ma il fatto decisivo è stato aprire le porte, guardare insieme la realtà umana del nostro territorio, questa umanità dolorante, e vedere cosa potevamo fare. Questo ha fatto cadere ogni difficoltà, ogni sospensione. È stato subito evidente che la motivazione pratica che aveva portato all’unificazione di queste due realtà parrocchiali, avesse dietro un disegno più grande, ed è stato come accogliere questo disegno più grande che Dio aveva su questo territorio.

Una festa nel quartiere con le famiglie ucraine

Luisa, spesso nelle parrocchie tra fedeli e sacerdoti la collaborazione non è semplice perché il parroco è troppo autoritario, oppure perché i laici sono apatici, o ancora perché ci sono alcune persone o gruppi che vivono troppo da protagonisti la vita in parrocchia. Qual era la situazione nel vostro caso e qual è stato il rapporto con il vostro parroco? 

Don Enrico noi lo conosciamo da molto tempo, ma non era il nostro parroco. Lo è diventato quando il vescovo ha unificato le due parrocchie in un’unica Unità pastorale. Lui non è un tipo autoritario e ha un’intelligenza pastorale e un’apertura mentale non comuni, ma anche una grande stima per i laici e ne riconosce l’importanza per la vita della parrocchia. Don Enrico desiderava mettere a disposizione i beni e le risorse materiali e i talenti umani delle due parrocchie per un progetto di fraternità e il nostro rapporto con lui è di stima reciproca, di collaborazione, anche di amicizia.

Dal mettere insieme tutte le ricchezze umane e materiali della vostra Unità pastorale sono usciti un appartamento da ristrutturare che ora accoglie tre famiglie di profughi ucraini e altri locali. E poi tanti progetti da realizzare grazie anche agli aiuti economici ricevuti. Che cosa è stato già realizzato e che cosa c’è in cantiere?

Sì, la prima cosa è stato ristrutturare questo appartamento perché al cuore di tutto c’è l’accoglienza. Poi abbiamo presentato un progetto alla Fondazione Pisa che l’ha approvato e quindi ci è arrivato un grosso finanziamento. Dobbiamo anche riconoscere tanta “provvidenza”: ci è arrivata una donazione davvero molto generosa che ci consente di avviare tante attività. Abbiamo già fatto un Centro sociale di aiuto che abbiamo chiamato “Non sei solo”, dove si accolgono le persone, le si ascolta e le si accompagna soprattutto a esercitare quei diritti costituzionali che spesso sono negati: dal lavoro alla salute, alla casa, alla formazione, ai corsi di lingua italiana, perché il nostro è un quartiere prevalentemente abitato da stranieri. Stiamo ristrutturando un teatrino dove faremo altre attività sociali, e dove far incontrare i giovani con gli anziani che sono molto presenti nel territorio e molti sono soli e anche in difficoltà economica. Per esempio, abbiamo un bel gruppo scout che si è messo all’opera in questo senso. E stiamo costituendo un GAS comunitario, cioè un gruppo d’acquisto solidale che, oltre a educare le persone a un sano consumo, vuol avere alla base un principio solidale, perchè noi acquisteremo prodotti in quantità maggiore rispetto ai richiedenti che però pagheranno anche la quota di alimenti in esubero per chi non può accedervi perché non ha i soldi, quindi un po’ come il caffè pagato. E ancora abbiamo aperto un laboratorio di tessitura con una maestra artigiana di grande qualità che insegna soprattutto alle donne questo lavoro per poter imparare un mestiere che qui ha molti sbocchi di mercato.

Il matrimonio di Nathalia e Marcel, una coppia brasiliana. Nella foto con Luisa e Stefano Biondi

Ecco, ma quante sono le persone coinvolte in tutte queste attività finora?

Sono tantissime, non le abbiamo ancora stimate, ma sono qualche centinaio quelle che girano intorno ai vari progetti per ora, ma pensiamo che aumenteranno. Infatti stiamo misurando un po’ le forze e chiediamo “operai” all’eterno Padre.

Come Unità pastorale San Marco e San Martino è stato elaborato un documento chiamato “Patto di comunità”. Luisa, che cos’è, che cosa lo anima e che cosa prevede?

Il “Patto di comunità” è nato proprio dal costatare che nel nostro territorio erano presenti gruppi e associazioni come la Fondazione Opera Giuseppe Toniolo, un gruppo scout molto numeroso, le Acli, il CIP comunale provinciale, la Cisl e quattro cooperative sociali. Quindi è stato naturale riunirci intorno a un tavolo per guardare insieme la realtà del territorio. E in questo ritrovarci insieme è nata l’idea di tradurre in un patto scritto quella relazione che c’è tra noi. Lo scopo che ci siamo dati è quello di ricostruire la comunità civile ed ecclesiale, sempre mettendo al cuore di questo progetto l’accoglienza.

Ecco, in tutto questo vorrei sapere quali sono i commenti della gente e anche dell’amministrazione. E poi se questa può essere anche una via perché l’annuncio cristiano, il Vangelo, arrivi più lontano. Che cosa può dirci Stefano?

I commenti sono molto positivi tant’è vero che la Fondazione Pisa ci ha dato il finanziamento ed è rimasta sorpresa del progetto e anche del fatto che c’era questo patto, questa relazione trasversale in cui la pastorale è, diciamo, l’animatrice, ma aprendo le porte della chiesa e mettendo a disposizione di tutti le altre risorse dei gruppi e associazioni. Il Sindaco è venuto per vedere di cosa si trattava, ha incontrato gli ucraini mostrando grande entusiasmo e dandoci il suo sostegno. Noi sentiamo anche la responsabilità di tutto questo, perché è una sfida per tutta la città: ci stanno guardando quasi fossimo un progetto pilota dentro una realtà di grave disagio. E questa pensiamo sia la strada anche per l’evangelizzazione, perchè la via maestra è la promozione umana, è ciò che ci rende credibili. Ci sono anche dei bellissimi segni concreti che ce lo confermano. Per esempio, una giovane famiglia brasiliana che vive in disagio economico, si è sentita accolta dalla comunità e loro si sono avvicinati alla fede, prima chiedendo il battesimo per il bambino di quattro anni, poi li abbiamo accompagnati al matrimonio religioso, chiesto da loro, e si sono sposati in chiesa con la festa di tutta la comunità con loro. Nei prossimi giorni ci sarà il Battesimo del loro nuovo bimbo, che è nato ad agosto, e che è un frutto di questo amore perché hanno sentito di rispondere con una nuova maternità e paternità all’amore di Dio ricevuto.

Il saggio di Artem. Nella foto anche don Enrico Giovacchini

Quando ho saputo della vostra esperienza, ho pensato subito al Sinodo che la Chiesa sta vivendo e l’ho vista come una testimonianza di sinodalità vissuta proprio nella vita ordinaria di una comunità…

Noi, in realtà, all’inizio non abbiamo pensato di fare un’esperienza sinodale, ma soprattutto ad un’esperienza di fraternità. Poi, col tempo, ci siamo resi conto che questa era un’esperienza sinodale, perché c’erano tutti i segni: le due parrocchie messe insieme, il dialogo con gli ucraini che comunque hanno un’altra cultura, il dialogo con le varie associazioni, con le istituzioni, con i singoli, tra cui ci sono persone non credenti e non praticanti.

Il grande telaio nel laboratorio di tessitura

Possiamo dire che avete messo in atto sul territorio quello stile di ascolto, di dialogo e di discernimento in comune che sono gli elementi che emergono dal Sinodo…

Sì, è vorrei sottolineare l’attenzione sempre al particolare, perché le persone hanno sicuramente bisogni essenziali da risolvere come la casa, il mangiare, le medicine, però poi hanno bisogno anche di realizzarsi e le persone si realizzano soprattutto attraverso un rapporto vero di amore e poi stando attenti alle loro aspirazioni. Potremmo raccontare tante cose: ci siamo accorti, ad esempio, che uno dei bambini ucraini era un bel talento musicale, per cui abbiamo fatto di tutto per aiutarlo a custodire e a sviluppare questo dono, così anche in altre situazioni. Si potrebbe anche aggiungere che il nostro compito è stato un po’ quello di tirar fuori sia dai singoli, sia anche dalle associazioni, quelle che erano le loro capacità, il loro mandato, in modo che tutti si sentissero partecipi ad un unico progetto.