Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano
Da Luník IX sono sempre scappati via tutti. Sono scappati soldati e poliziotti, ai quali il regime comunista aveva assegnato le case alla fine degli anni ’70. Sono scappate le maestre, esasperate da classi di ragazzini indisciplinati e assenteisti. Sono scappati i preti, mandati in missione dalla diocesi e pure gli stessi Rom, piagati da usura, lotte fra clan, razzismo, ma soprattutto da condizioni di vita degradanti, in edifici fatiscenti dove mancano riscaldamento e acqua potabile.
Un esodo che ha dimezzato la popolazione
L’alba sembra non sorgere mai in questo ghetto alla periferia di Košice, equivalente slovacco di uno slum, una favela, una baraccopoli. Pensato inizialmente come un quartiere residenziale per i componenti dell’esercito, poi, con una legge nazionale il 1° ottobre 1990, istituito come distretto cittadino separato, con un proprio governo autonomo, oggi questa porzione di terra ospita la più alta densità di popolazione Rom della Slovacchia e, probabilmente, di tutta l’Europa. Circa 4.300 gli abitanti, numero difficile da stabilire visto che sono tanti quelli che vanno via trasferendosi in Belgio o in Inghilterra o in alloggi di fortuna in città, ma che altrettanti sono quelli che nascono ogni mese. Fino a qualche anno fa erano quasi 8mila gli abitanti, si sono dimezzati dopo l’esodo iniziato dagli anni 2000.
Bambini lasciati a se stessi
Troppo difficile lottare ogni giorno contro la miseria più nera che ha la forma dei sette-otto palazzoni diroccati e fuligginosi, sui quali spiccano i colori accesi dei panni stesi sui balconi. Dal ventre di questi edifici sbucano i volti di ragazzini sporchi di terra: giocano tra rivoli di un fiume secco, ricolmi di spazzatura, oppure girovagano nei boschi circostanti. 800 sono iscritti a scuola ma ci vanno quando ne hanno voglia, sfuggendo al controllo di insegnanti e genitori.
I salesiani in missione dal 2008
Un luogo dimenticato dagli uomini Luník IX, ma non da Dio come testimonia la presenza di un gruppo di salesiani, gli unici a non essere mai fuggiti da tredici anni a questa parte. Dal 1° ottobre 2008 svolgono un’intensa attività pastorale mirata a garantire educazione e formazione a giovani e bambini, altrimenti rassegnati a un destino criminale. Anche i seguaci di don Bosco necessitano, però, di andare via un giorno a settimana o un intero weekend, se non un mese, per “respirare un’altra aria”. Che tradotto significa: salvaguardare il proprio benessere psicologico.
Don Peter, il prete dei Rom
In questa realtà ferita oggi pomeriggio arriverà Papa Francesco, per una tappa tra le più significative del viaggio in Slovacchia. “Una visita ispirata da Dio”, dice a Vatican News don Peter Bešenyei, sacerdote che ha consacrato la sua vita al servizio dei Rom. Ha scritto libri (“Il silenzio degli zingari” e “Uccidiamo il razzista in noi stessi”) e sostiene da anni la causa della comunità. Sarà lui a raccontare al Papa la vita e le difficoltà del ghetto e soprattutto l’attività del Centro Pastorale Salesiano da lui diretto. Una sorta di quartiere nel quartiere, costruito anche grazie al Comune di Košice e inaugurato nel 2012. Attualmente è composto da un’abitazione per i sacerdoti che ci vivono e ci dormono, una palestra, uno spazio per gli incontri di gruppo e la Chiesa del “Cristo Risorto”. Per i Rom è un punto di riferimento: dentro ci trovano di tutto, anche la lavanderia.
Abbandonati dal governo
Le iniziative del Centro vanno a sopperire un vuoto istituzionale. “L’aiuto del governo c’è stato per molti anni, sin da quando nel ’78 il regime ha deciso di costruire questo distretto secondo la formula dell’ABC: A, come armia, i soldati; B, bezpečnosť, i poliziotti; C, cigáni, i gitani. Una triplice combinazione con cui si voleva risolvere la ‘questione zingari’, ma pochi anni dopo sono fuggiti tutti e sono rimasti solo loro. Inizialmente sono stati erogati tanti servizi gratis, ma nei vari governi che si sono succeduti i Rom non sono stati quasi mai una priorità. L’obiettivo di noi come Chiesa è perciò di lavorare sul lungo termine”.
I salesiani sono, insomma, una garanzia per gli slovacchi che ignorano, o fanno finta di ignorare, l’esistenza di Luník. “Qualcuno ha iniziato a venire per dare aiuto. Gli stessi Rom hanno rotto gradualmente il muro di diffidenza verso il mondo esterno”.
L’integrazione: un miraggio
L’integrazione rimane tuttavia un miraggio o comunque un privilegio per quei pochi che hanno capacità e voglia di emanciparsi, di trovarsi un lavoro e far crescere i figli lontani dall’ombra dei palazzoni di Luník. “Non è neanche così semplice per loro”, spiega don Peter. Pregiudizi e razzismo sono un grosso ostacolo. Alcune ong hanno provato a “educare” i Rom al lavoro salariale, ma le aziende li rifiutano o, se li assumono, non sembrano voler promuovere tale politica di “apertura”. Come se fosse una vergogna dire che nel personale ci sono dei Rom. Quelli che rubano, quelli inaffidabili, a cui non va di lavorare. “Oltre al pregiudizio – spiega Bešenyei – c’è il fatto che molti non sono sufficientemente istruiti neanche per lavori semplici, come quello di muratori”. Mancano risorse, ma anche stimoli: “Non abbiamo esempi positivi. I pochi capaci di elevarsi dalla miseria di Luník non tornano più”.
Un muro di diffidenza
L’isolamento è un’altra piaga degli abitanti di Luník IX. Non sono solo i genitori che hanno ritirato i figli da scuola quando si è provato a formare classi “miste” coi Rom, ma anche gli stessi zingari hanno impedito per anni qualsiasi accesso al loro territorio. Sputi, insulti, aggressioni, magari da ragazzini piccolissimi, erano all’ordine del giorno contro chiunque si avvicinasse.
I salesiani ne sanno qualcosa, non è stato facile per loro superare questo valico. Ci sono riusciti attraverso un’opera di “ammorbidimento”, mirata a trasformare la diffidenza in fiducia, le occhiatacce in strette di mano, l’ostilità in collaborazione. “Abbiamo iniziato a dire ciao alla gente, chiamandola per nome”, raccontano. Poco a poco i Rom hanno cambiato opinione verso quei preti fino a quel momento chiamati con spregio “biele ošípané (maiali bianchi)”. E hanno cominciato pure ad affidargli i figli per oratori, centri estivi o progetti teatrali, sportivi, musicali.
Il grande restyling
Dalle macerie del degrado, sono fioriti buoni frutti. Ad esempio il coro che oggi canta per il Papa e che raccoglie gitani, cattolici, greco-cattolici, di diverse età e provenienza. Hanno collaborato attivamente per la preparazione della visita del Papa perché questo evento ha acceso in loro la concreta speranza che “qualcosa può cambiare”. Ad accenderla è stato soprattutto vedere il restyling che Luník vive da settimane: elettricità ripristinata, strade pulite, palazzi ripitturati. Il timore di chi vive qui dentro è infatti che, andato via il Papa, si torni a sprofondare nel baratro della povertà.
L’arrivo del Papa
“Sono tutti contenti che arrivi il Santo Padre. Dicono: ‘Né ministri, né presidenti sono riusciti a fare cambiamenti qui. Solo il Papa ce l’ha fatta’. Indirettamente Francesco ha portato un miglioramento della loro vita”, dice don Peter. “Molti Rom non sono credenti, ma riconoscono l’autorità morale del Pontefice. Il fatto che lui venga a trovarli a casa loro, fa vedere il Papa come una figura vicina. ‘Posso invitarlo a pranzo? Posso offrirgli una birra?’, ci chiedono. Sono felici… Felici soprattutto del cambiamento materiale. Vorremmo però che il cambiamento fosse soprattutto spirituale. I Rom sono credenti per natura, confidano in un essere superiore e noi approfittiamo di ogni circostanza per portargli il Vangelo. Ad esempio quando vengono a chiedere di battezzare i figli, anche se lo fanno quasi come se fosse un rituale magico. Per noi però è un’occasione pastorale…”. E a Luník si vive soprattutto di occasioni.