di Carlo Petrini
Con l’appello rivolto alle grandi compagnie alimentari, lo scorso 16 ottobre Papa Francesco ha voluto mettere in risalto il fatto che questo sistema alimentare ci sta avvelenando. Un intervento oltre che rivoluzionario quanto mai necessario. È alquanto significativo che una figura della caratura di un Pontefice denunci in maniera schietta le strutture e i processi che stanno mettendo a repentaglio la vita del genere umano su questo Pianeta. Nel caso specifico, Bergoglio ha puntato il dito contro un’industria alimentare incentrata esclusivamente su consumo e profitto, la quale, se non contrastata, continuerà a impinguare e ad accrescere gli effetti negativi delle due principali crisi che da anni ci attanagliano: quella economico-sociale e quella climatico-ambientale.
Partiamo dalla prima. Per comprovare l’impatto dell’agroindustria in termini economici e sociali basta richiamare in causa quella che a prima vista può sembrare una semplice e paradossale equazione. Da una parte troviamo poche grandi aziende che si occupano della cosiddetta produzione di massa del cibo. I prezzi con cui questi entrano nel mercato rendono i loro prodotti appetibili a quella maggioranza di famiglie che vivono a ridosso della soglia di povertà. Nel medesimo tempo però, gli stessi prezzi dettati da una logica di mercato dopata, non possono essere competitivi per il secondo membro dell’equazione: la moltitudine di contadini e piccoli
produttori che rappresentano oltre il 70% del totale delle aziende agricole. Quest’ultimi infatti, oltre al duro lavoro richiesto dalla terra, devono riuscire a ritagliarsi una “nicchia” di mercato che garantisca loro di non commerciare sottocosto il cibo ottenuto da pratiche agricole sane e virtuose. In altre parole, per vendere i loro prodotti ad un valore equo e allontanare così lo spettro
dell’estinzione, i produttori di piccola scala sono costretti a vendere a prezzi più alti e meno accessibili.
Questo scenario risulta essere davvero inquietante, soprattutto se a governare il tutto (ovvero a determinare il prezzo dei prodotti), non vi è solo lo sfruttamento di economie di scala, bensì la scarsa qualità delle materie prime, l’utilizzo di nocivi prodotti di sintesi (sia a livello di produzione che a livello di trasformazione), condizioni di lavoro che spesso rasentano la schiavitù e
soprattutto logiche di mercato in grado di influenzare un consumo spesso superfluo e che alimenta e legittima lo spreco. Il risultato di questa equazione? Polarizzazione dei redditi e ingiustizia sociale. In altre parole: disuguaglianza! E non è tutto qua. Il sistema alimentare odierno è sinonimo di disuguaglianza anche per un ulteriore drammatico paradosso. È infatti doveroso rimarcare il fatto che noi oggi viviamo in un mondo che conta da una parte oltre 1 miliardo e 600 milioni di persone che soffrono di patologie strettamente connesse all’ipernutrizione; contemporaneamente si superano gli 800 milioni di casi di fame e malnutrizione.
Se da un lato del globo, quello meno sviluppato a livello economico, si patisce ancora la fame e ci si ammala per la scarsa qualità del cibo. Dall’altro lato, quello che noi consideriamo progredito, galoppano l’obesità, il diabete e le malattie cardiovascolari. Questo è un altro scenario che inquadra in maniera limpida come questo sistema crei delle pericolose divergenze, le quali non possono più essere tollerate. Aggiungo, se il modello di consumo alimentare occidentale venisse adottato nello stesso momento da tutto il mondo, allora non basterebbero due Pianeti per soddisfare uno stile di vita che contraddistingue l’economia dello scarto. Dobbiamo necessariamente renderci conto che, sono soprattutto le scelte alimentari che noi adottiamo a incidere sulla nostra salute, e quindi sulla salute della società e della nostra Terra. Ipernutrire noi stessi si traduce con una sovrapproduzione di cibo, la quale implica a sua volta un dispendio di energie non necessario. Interi campi vengono coltivati, diserbati e super sfruttati del tutto inutilmente; il consumo delle risorse idriche risulta sovrabbondante, così come il relativo inquinamento delle falde acquifere; la trasformazione, il packaging e il trasporto della sovrabbondanza del cibo chiudono un circolo mefistofelico che fa ammalare noi e l’ambiente che ci circonda.
Passando dunque alla questione climatico-ambientale possiamo constatare che i risultati non cambiano. Oltre un terzo delle emissioni di gas serra è riconducibile alla produzione di cibo. Di questo oltre la metà è da imputare agli allevamenti di bestiame. Basterebbe sottolineare questi dati per comprendere l’impatto del sistema alimentare in questa crisi. Eppure, anche in questo caso, entrando più nel dettaglio la situazione si fa sempre più paradossale. Spiego il perché. Il primo settore che risente degli effetti immediati del cambiamento climatico è proprio quello alimentare. L’innalza – mento di un solo grado di temperatura implica lo spostamento delle coltivazioni di 150 metri in altitudine e di addirittura 150 chilometri in latitudine. Ecco che come effetti collaterali abbiamo l’abbandono di terreni ormai improduttivi (la desertificazione è una piaga ormai diffusissima) per bonificare nuove zone: la coltivazione della vite che arriva nel Regno Unito e i frutti esotici in Sicilia. Tutto ciò non implica solo dei costi imprevisti per le aziende alimentari, ma anche ulteriori disboscamenti che, esattamente come in un circolo vizioso, alimentano il galoppare del surriscaldamento globale.
Ma dico di più. L’organizzazione mondiale della sanità sostiene che per una dieta sana ed equilibrata sono sufficienti 25 chilogrammi di carne all’anno. Oggi in Italia c’è un consumo procapite annuo di 80 chilogrammi; e dire che siamo tra i meno carnivori d’Europa. Senza prendere in considerazione gli oltre 120 chilogrammi di carne che ogni anno uno statunitense mangia. In sostanza, circa il 15% delle emissioni di gas serra dipendono da un consumo eccessivo ed esagerato di carne. Lo stesso discorso sviluppato finora sul tema del superfluo si può riportare sulla questione dello spreco. La Fao denuncia che ogni anno viene sprecato un terzo del cibo prodotto. Vi è quindi da prendere in considerazione anche l’impatto ambientale che questo dilapidare e scialacquare risorse implica.
Ecco perché questo sistema alimentare è emblema del fallimento del modello capitalistico. Infatti, la logica fondante del capitalismo, la quale prevede l’accumulo finalizzato all’investimento, non è per nulla confacente ad un settore che tratta essenzialmente beni deperibili. Un settore che evidenzia, sempre più nitidamente, quanto Papa Francesco sostiene sin dalla stesura della sua Laudato si’: ovvero che non ci è consentito pensare di poter superare la crisi economica senza dover affrontare gli sconquassi ambientali; così come non ci è possibile oltrepassare la violazione dei diritti umani e la disuguaglianza sociale senza doverci confrontare nel medesimo momento con la crisi climatica.