Fausta Speranza – Città del Vaticano
Dopo il G20 di Roma, a partire da domani 1 novembre, l’attenzione mediatica mondiale si sposterà a Glasgow, in Scozia, per la 26esima Conferenza delle Parti della Convenzione quadro sul cambiamento climatico voluta dall’Onu (COP 26). A confrontarsi saranno leader di 197 nazioni. Ad essi si uniranno decine di migliaia di negoziatori, rappresentanti di governo, imprese e cittadini. Si tratta di un continuum di confronto tra volontà politiche su tematiche interconnesse, come emergenze climatiche, migrazioni, povertà, crisi sanitaria. L’obiettivo va ben oltre le misure di contenimento dei rischi, come sottolinea il diplomatico Guido Lenzi, docente all’Università di Bologna, già ambasciatore e Direttore dell’Istituto di Studi Europeo per la Sicurezza, a Parigi:
La sfida – chiarisce Lenzi – non consiste solo nel raggiungere accordi per contrastare il surriscaldamento globale, ma nel ritrovare, dopo gli scossoni della globalizzazione e della pandemia, un nuovo equilibrio di collaborazione a livello internazionale. Lenzi spiega che, in sostanza, dopo la guerra fredda e la globalizzazione si deve recuperare la prospettiva che aveva portato in precedenza a concepire le Nazioni Unite. Secondo il diplomatico, le vicende degli ultimi anni hanno rimesso in discussione il presupposto di un consesso internazionale all’interno del quale far sviluppare confronti e accordi che permettessero di superare le logiche di equilibri di potenza. Ricorda che si sente parlare di fallimento o di riforma dell’Onu, sottolineando che in realtà si deve puntare l’attenzione sulla volontà politica dei vari Paesi di far funzionare il meccanismo delle Nazioni Unite, perché – aggiunge – bisogna recuperare il presupposto di base: trovare accordi e modalità di collaborazione seppure nel rispetto delle peculiarità di ogni Paese. Per questo a suo avviso è significativo assistere a una sorta di flusso ideale che dal G20 porta a Cop26. Ma deve essere chiaro e condiviso da tutti i leader mondiali l’obiettivo di cooperare per trovare soluzioni comuni.
In ogni caso, non possono esserci impegni di sostenibilità ambientale, come i tagli previsti alle emissioni, senza piani per il periodo cruciale di transizione fatti pensando in particolare alle fasce più deboli, come raccomanda l’esperta di risorse naturali dell’Ifad Romina Cavatassi:
La ricercatrice innanzitutto mette in luce la complessità di problematiche, sottolineando che non può esserci sostenibilità ambientale senza sostenibilità sociale. E poi invita ad una riflessione su due binari: il primo riguarda le misure di “contenimento” da prendere, come ad esempio quelle per diminuire le emissioni di carbonio. Cavatassi sottolinea che sono doverose e importanti e che bisogna trovare accordi che le assicurino. Il secondo binario di riflessione, però, non può mancare: è quello delle misure che definisce di “adattamento”, cioè in grado di sostenere aree geografiche, popoli, fasce di popolazioni che sono destinate a pagare i prezzi più alti del passaggio da vecchie e nuove produzioni, tra vecchie e nuove concezioni di sviluppo. Non si può dimenticare – raccomanda – di assumere impegni precisi per far sì che la fase di transizione non stritoli i più deboli. Fino ad oggi – ricorda – la maggior parte di investimenti stanziati è diretta alle misure di contenimento, mentre troppo poco è pensato per accompagnare i coltivatori di Paesi africani, ad esempio, nel passaggio a tipi di colture che consumano meno acqua o a risorse energetiche rinnovabili. Si tratta di tutte misure doverose nella inevitabile lunga fase di transizione.
Le sfide nel concreto
Secondo rapporti delle Nazioni Unite, se anche gli accordi presi finora venissero rispettati, non basterebbero ad invertire la rotta: entro il 2100 il mondo sarebbe comunque più caldo di 2,7 °C rispetto ai livelli preindustriali. Un aumento ben superiore all’obiettivo di 2°C degli Accordi di Parigi del 2015. In un pianeta più caldo di 2 gradi le ondate di calore, considerate finora eccezionali, diventerebbero fino a 14 volte più probabili ogni anno, raddoppiando gli eventi di siccità o le alluvioni. “Siamo sulla buona strada per la catastrofe climatica” ha detto senza mezzi termini il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres. “Gli scienziati sono chiari sui fatti. Ora i leader devono essere altrettanto chiari nelle loro azioni, devono venire a Glasgow con piani audaci, vincolanti nel tempo per raggiungere lo zero netto”, ha dichiarato.
La temperatura del pianeta già oltre gli 1,2°C rispetto ai livelli pre-industriali e l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C fallirà già nel 2040 se non si procederà immediatamente a tagli massicci delle emissioni di gas serra: almeno il 50 per cento del totale entro il 2030. La sfida di Glasgow, dunque, è innanzitutto quella di fissare obiettivi più ambiziosi per ridurre le emissioni entro i prossimi dieci anni, considerati ‘cruciali’ per il futuro del pianeta.
La questione combustibili fossili
Il settore dell’approvvigionamento energetico, ancora fortemente dipendente dai combustibili fossili e responsabile per circa il 75 per cento delle emissioni dirette di CO2, è in assoluto il più inquinante a livello globale. Questo spiega perché i Paesi più industrializzati sono anche quelli che inquinano di più e perché è a loro che l’Onu chiede di intensificare gli sforzi economici: eliminando i sussidi alle fonti fossili, ma anche sostenendo i Paesi più vulnerabili. L’eliminazione graduale dei combustibili fossili dovrebbe essere realizzata però attraverso una transizione equa. Ciò significa porre fine al sostegno pubblico per i progetti sui combustibili fossili, in via prioritaria il carbone, il più inquinante, che dovrebbe essere eliminato il più rapidamente possibile, tutelando al tempo stesso le popolazioni e le comunità più colpite. Dei 100 miliardi di dollari l’anno promessi per sostenere i Paesi in via di sviluppo – che inquinano meno ma devono adattarsi ad un modello di crescita sostenibile – ne sono arrivati solo 80, di cui 60 sotto forma di prestiti.