di Giulio Albanese
Sono trascorsi 10 anni dalla morte di Mu’ammar Gheddafi. Difficile dimenticare quei giorni che precedettero l’orribile esecuzione del ràis. Giorni drammatici, quando Assaray al-Hamra, il Castello Rosso di Tripoli, sulla piazza Verde, maniero della Tripolitania, era diventato il simbolo della precarietà di un potere che stava definitivamente implodendo. Ma è possibile,oggi, azzardare un primo bilancio storico di quegli eventi? Sebbene alcune cancellerie ritengano improbabile affermare un nesso causale troppo stringente tra la fine del regime e la successiva guerra civile, sarebbe pretestuoso pensare che molte delle dinamiche che hanno segnato la crisi libica in questo passato decennio, non trovino quantomeno una parziale spiegazione nelle convulsioni di un paese lacerato da penose divisioni interne.
A questo proposito è illuminante la riflessione di Jason Pack, autore del saggio The 2011 Libyan Uprisings and the Struggle for the Post Qadhafi Future («Le insurrezioni libiche del 2011 e lo sforzo per il futuro dopo Gheddafi»). Si tratta di un titolo che declina al plurale ciò che di solito viene raccontato al singolare: non si parla infatti «dell’insurrezione libica» ma «delle insurrezioni libiche», «the Libyan uprisings». Pack è infatti convinto che Gheddafi abbia dovuto affrontare in 42 anni di potere assoluto varie insurrezioni motivate da diversi fattori economici, politici, etnici, sociali e che la sua morte abbia eliminato l’unico collante capace di contrastare la disgregazione. Dal 20 ottobre 2011 in poi, con la fine della Jamahiriya (neologismo inventato da Gheddafi per indicare il governo delle masse), si è affermata una forza divisiva dell’unità e della stabilità economica, politica, etnica, sociale, della Libia.
Come ha scritto recentemente Leonardo Palma sul portale online dell’ISPI, è indubbio che Gheddafi, nel corso del suo lungo regime «applicò una spietata tattica del divide et impera prevenendo la formazione di un centro di potere rivale attraverso i bizantinismi di un caotico sistema di patronato, corruzione, terrore e potere informale dove l’unica parola che veramente contava era la sua». Rimane il fatto che venendo meno la retorica anti-coloniale e gli ideali della sua rivoluzione, la morte di Gheddafi ha aperto una vera e propria voragine politico istituzionale alla quale il consesso delle nazioni vorrebbe idealmente porre rimedio. Per il momento, l’impressione degli osservatori è che in questi anni la crisi libica sia stata internazionalizzata nel peggiore dei modi e che gli attori in campo continuino a perseguire politiche a sé stanti, legate in gran parte allo sfruttamento dell’immenso bacino di idrocarburi di cui è ricco il paese. Un indirizzo politico che trovò il suo incipit nella pretesa occidentale di esportare la democrazia in Libia con la destituzione del ràis.
D’altronde Gheddafi, poco prima che la periferia di Bengasi si rivoltasse contro Tripoli, nonostante il suo regime avesse commesso azioni terroristiche a dir poco devastanti (come nel caso di Lockerbie), era l’amico stravagante di molti politici e personaggi altolocati di mezzo mondo. Eppure la sua storia, esattamente 10 anni fa, finì male! Come scrive Andrea Semplici, profondo conoscitore delle vicende libiche: «È probabile che non potesse che finire così. A Sirte. Là dove Gheddafi, secondo la sua mitologia, era nato», precisando che forse nessuno, tra quelli che contano, avrebbe avuto la capacità di assistere a un processo contro Gheddafi. «Perché sarebbe stato un processo – commenta sempre Semplici – contro la follia cinica della politica internazionale. Sul banco dei testimoni sarebbero dovuti salire i protagonisti della storia degli ultimi quaranta anni». Dopotutto, a Gheddafi piacevano le finzioni. Nel 1989 stabilì per il suo paese l’ora legale perenne dimostrando di avere fantasia per ogni genere di minuzie stravaganti, anche quando era in gioco la religione. Le feste islamiche, in Libia, avevano un calendario diverso. A riprova dell’ostilità che divideva il colonnello dai regnanti sauditi, custodi della Kaaba. Certo, lui era il «qaid», il capo. Colui che ha poi pagato amaramente per le nefandezze commesse dal suo grottesco regime.