Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano
“Con tutto il rispetto che ho per le bambine, le adolescenti e le donne, dico che c’è più rispetto per un cane che per loro”. Parole che inchiodano e che si scontrano con la dolcezza dello sguardo di chi le pronuncia, l’argentino padre Jorge Crisafulli, missionario salesiano in Africa da quasi 25 anni. È lui che in pochi anni, dal 2016, ha dato rifugio a 593 ragazze tolte dalle strade di Freetown, una distesa di baracche che è la capitale della Sierra Leone. Di ragazze ne ha ‘perse’ 26, tornate a prostituirsi, ma continuamente seguite da lui e dallo staff del “Don Bosco Fambul”, che tradotto significa famiglia, rifugio aperto proprio da padre Crisafulli, per aiutare le giovani e giovanissime che vivono in strada a causa di povertà e miseria.
Nel mondo, indietro di venti anni
Il caso Sierra Leone altro non è che il modello di ciò che avviene in tanti, troppi, Paesi al mondo, dove l’infanzia e l’adolescenza di bambine e ragazze non prevedono né protezione né sostegno. In occasione della Giornata mondiale delle bambine, le principali organizzazioni a tutela della loro difesa, da Save the Children, a Terre des Hommes a Unicef, denunciano quella che viene indicata come una sorta di epidemia nascosta, conseguente a quella di Covid, e che colpisce bambine, ragazze e donne: è quella di violenza e povertà dovute ai quasi due anni di pandemia. I numeri denunciati sono tutti a sei o sette zeri: nel mondo nei prossimi dieci anni il numero di spose bambine aumenterà di 10 milioni, e sono proprio i matrimoni precoci a causare la morte, ogni giorno, di circa 60 tra bambine e ragazze a causa di gravidanze e parti; il numero delle baby mamme è cresciuto fino ad arrivare a 21 milioni e un milione di bambine il prossimo anno non tornerà a scuola. A causa del Covid e dei lockdown in varie parti del mondo, è come se si fosse tornato indietro di venti anni, perché tra gli 11 e i 20 milioni di bambine e ragazze hanno lasciato le aule e rischiano di non tornarci più, ed il loro destino oltre che dai matrimoni precoci, sarà contrassegnato da lavoro domestico e da una riduzione sensibile dei diritti. Il simbolo tra tutti sono le bambine afghane e la loro sorte dopo il ritorno al potere dei talebani.
La storia di Aminata
“Non è la vita che avrei voluto, perché alla fine mi ammalerò e morirò”, racconta Aminata, diciassettenne protagonista di un documentario dedicato al lavoro di padre Crisafulli. Aminata è sulla strada da quando aveva 13 anni, orfana di madre, padre mai conosciuto, le è rimasta la nonna, molto povera, e lei vende il suo corpo “per potere mangiare e poterle mandare i soldi”. Un tetto, del cibo, vestiti, assistenza sanitaria, cure mediche, assistenza sociale e psicologica, scuola, formazione professionale e artigianale questo offre il rifugio di padre Jorge, che cerca quotidianamente di fare “tutto quello che è nelle nostre mani per cambiare questa situazione” e che tenta così di far “recuperare a queste ragazze fiducia nell’umanità e di dare loro degli obiettivi da poter raggiungere, attraverso l’unica arma possibile: quella dell’istruzione”.
Il corpo in cambio di cibo
Padre Jorge, nei suoi giri per le strade di Freetown, ha contato 1900 ragazze che si prostituiscono, spesso bambine piccolissime. Ne ricorda una di soli nove anni e che già era affetta da “due malattie a trasmissione sessuali in fase avanzata”. Nel rifugio vi sono ragazze fino ai 17 anni, che hanno vissuto per strada per anni, completamente sole, orfane di genitori uccisi dalla guerra che il Paese ha vissuto fra il 1991 e il 2002, oppure morti per l’epidemia di Ebola fra il 2014 e il 2016. Sono tutte molto povere, basti pensare, ricorda il missionario, che l’indice di sviluppo umano classifica la Sierra Leone al 184° posto su 189 Paesi. “Scambiano il proprio corpo per un piatto di cibo, per acqua – mormora padre Jorge – anche senza protezione per guadagnare di più, e poi la salute è distrutta”.
Solo e soltanto ragazzine
Le ragazze aiutate dal rifugio fanno il lavoro della prostituta, sottostanno a qualsiasi tipo di abuso, ma pensano e sentono come ragazzine. Padre Jorge ricorda quando ha accolto un gruppetto di loro per far capire cosa potesse significare lasciare la strada: “Mi hanno chiesto del cibo, e poi un teddy bear, un orsacchiotto di peluche. In quel momento ho capito che sono ragazze, pensano come ragazze, sentono come ragazze, di notte possono are tutte queste cose, possono prostituirsi, cosa terribile ai nostri occhi, ma il giorno dopo sono ragazze”, e sono tutte minorenni, anche quelle che vengono perseguitate dalla polizia di Freetown, e violentate e derubate dagli stessi agenti, aggiunge il sacerdote.
Fare rete per combattere lo sfruttamento sessuale
Padre Jorge e il rifugio non lasciano mai le ragazze al loro destino, anche quelle che decidono di andare via vengono seguite, nella speranza che rientrino al Don Bosco. “Abbiamo fiducia – continua il missionario – perché non è solamente il lavoro dei nostri mani, ma è il lavoro di Dio, della grazia di Dio che può sanare tutti i traumi di queste ragazze”. Il problema è culturale, le donne, le bambine e le ragazze vengono spesso viste come un oggetto di piacere che si può usare e scartare senza alcun problema, e tutto questo, spiega padre Crisafulli, non riguarda solo l’Africa, o la Sierra Leone, o Freetown, ma “è un problema mondiale. Sono tante le bambine, le ragazze e le donne nel mondo che soffrono questa realtà. Io credo che dobbiamo avere compassione per questa realità e fare tutto quello che è nelle nostre mani, ma di tutti non soltanto dei religiosi e della Chiesa, e allora credo che si potrà mettere fine a questo abomino dello sfruttamento sessuale dei minori, specialmente delle ragazze, nelle strade di tutto il mondo”.
“Ci sono uomini buoni e uomini cattivi che possono rovinarti la vita”, ci dice ancora Aminata, che però, per sua fortuna e volontà, ha trovato chi la vita gliel’ha salvata.