Michele Raviart – Città del Vaticano
La guerra in Etiopia tra il Fronte di liberazione del popolo del Tigray e il governo federale continua e si espande anche negli Stati limitrofi di Amhara e di Afar. A farne le spese sono le popolazioni civili e alle oltre 400 mila persone nel Tigray che vivono in condizioni vicine alla carestia, si aggiungono oltre 5 milioni di persone che necessitano di cibo e gli oltre 300 mila sfollati nelle nuove regioni occupate dai ribelli da fine luglio.
La strategia delle milizie tigrine
“Nell’Afar ci sono una strada e una ferrovia che collegano la capitale Addis Abeba a Gibuti, il principale sbocco sul mare”, spiega a Vatican News Luca Puddu, storico e africanista presso l’università Federico II di Napoli. L’obiettivo delle milizie, sottolinea ancora, è poi quello di “riconquistare il Tigray occidentale che per i ribelli tigrini rappresenterebbe una possibilità di ristabilire contatti diretti con il Sudan e dunque di far transitare aiuti alimentari e perché no anche aiuti militari”.
Assaltati i magazzini dell’Usaid
La situazione nel Paese, infatti, è resa ancor più difficile dal blocco degli aiuti umanitari nell’area, denunciata giovedì scorso dall’ufficio dell’Onu per gli affari umanitari. Fin dall’inizio del conflitto, lo scorso 4 novembre, entrambi le parti si sono accusate a vicenda di aver bloccato l’accesso a cibo e convogli, che dal 20 agosto non riescono a entrare in Tigray. Il portavoce del primo ministro Abij Ahmed ha negato ogni responsabilità, mentre le milizie tigrine hanno saccheggiato nello Stato di Amhara i magazzini dell’Usaid, l’agenzia umanitaria del governo degli Stati Uniti, e hanno portato via cibo, oggetti e camion, come ha affermato il capo della missione in Etiopia alla tv di Stato.
Migliaia di scuole distrutte
Le incursioni avrebbero poi causato “una grossa ondata di distruzione” nei villaggi della zona, dopo che nelle scorse settimane i funzionari della regione avevano accusato le forze tigrine di aver ucciso circa 40 civili e distrutto scuole – 7 mila quelle distrutte dall’inizio della guerra con quasi un milione e mezzo di studenti impossibilitati a fare lezione – , ospedali e altre strutture. In generale, si riscontra un aumento delle violenze in tutta l’Etiopia settentrionale, tanto che per mancanza di sicurezza anche la Chiesa cattolica è stata costretta a sospendere la distribuzione degli aiuti raccolti grazie alla Caritas.
Una profonda crisi economica
Sullo sfondo rimane ancora aperta la situazione politica, con il nuovo governo che non sarà formato prima del prossimo 4 ottobre. “Ci sono state delle elezioni che in teoria hanno dato una maggioranza dei voti superiori al 90% al primo ministro Abiy Ahmed”, spiega ancora Puddu. “Questo consenso ufficiale”, infatti, “non è scontato che si traduca in una stabilità del futuro esecutivo e questo principalmente per due ragioni. Innanzitutto di ordine economico. L’Etiopia, oggi si trova in una profonda crisi, in parte dettata dalla pandemia, che ha portato sull’orlo del fallimento il principale forziere dello Stato etiopico, l’Etiopian Airlines, e dall’altra la guerra nel Tigrai che ha esaurito le riserve finanziarie dello Stato. Oggi il tasso di inflazione ad Addis Abeba è ai massimi da dieci anni e se questa situazione dovesse peggiorare, naturalmente ci potrebbero essere ripercussioni nel rapporto con la base elettorale e con l’apparato burocratico militare”.