Andrea De Angelis – Città del Vaticano
Sono dieci i capoluoghi di provincia conquistati dai talebani in pochi giorni. L’ultima città a cadere è stata Ghazni, diastante soli 150 chilometri da Kabul. Due giorni fa i talebani avevano raggiunto il centro di Farah, riuscendo così a conquistare due terzi del Paese. Una percentuale che dopo la presa di Ghazni aumenta, mentre a diminuire è la distanza che li separa dalla capitale.
Decine di morti a Ghazni
“Hanno preso il controllo di aree chiave della città: l’ufficio del governatore, il quartier generale della polizia e la prigione”, ha detto Nasir Ahmad Faqiri, capo del consiglio provinciale di Ghazni, aggiungendo che in alcuni parti della città sono ancora in corso combattimenti. Faqiri ha aggiunto che sono decine le vittime, mentre gran parte delle armi è stata sequestrata all’esercito. Cresce anche il numero degli sfollati, nella città come in vaste aree del Paese. Dinanzi ad un simile scenario, gli Stati Uniti hanno comunque confermato il ritiro totale dei soldati americani dall’Afghanistan. “Non sono pentito”, ha affermato il presidente Joe Biden nei giorni scorsi, mentre ieri la portavoce Jen Psaki ha detto che l’esercito afghano “ha tutto quello che serve” per rispondere all’offensiva dei talebani.
Kabul rischia di cadere
Le parole di Jen Psaki sembrano contrastare con quanto riportato dai media statunitensi, che citano fonti dell’intelligence: Kabul cadrà entro tre mesi, forse già a fine estate. Secondo alcuni organi di stampa, inoltre, Washington starebbe valutando la chiusra dell’ambasciata a Kabul. Tutto questo accade in una nazione dove già lo scorso mese – come reso noto dalle Nazioni Unite – il 45% della popolazione necessitava di aiuti umanitari. L’Europa intanto si divide sui profughi, il cui numero potrebbe aumentare in modo esponenziale nelle prossime settimane. Il governo di Kabul ha infatti notificato a Bruxelles la sospensione delle riammissioni per i rimpatri dall’Unione, ma sei Paesi – tra cui Austria e Danimarca – sono contrari al blocco. La questione verrà affrontata al Consiglio Affari Interni del 18 agosto, intanto si registra un passo indietro da parte dei Paesi Bassi e della Germania che, dopo un iniziale rifiuto, hanno sospeso i rimpatri vista l’emergenza umanitaria.
Un futuro incerto
Il possibile ritorno al potere dei talebani potrebbe cancellare le poche conquiste sociali di questi ultimi venti anni di controllo da parte delle truppe occidentali, ora in fase di smobilitazione. Arianna Briganti, vicepresidente di 9onlus, una ong impegnata in particolare nella promozione e tutela delle donne afghane, nell’intervista a Radio Vaticana – Vatican News, realizzata da Stefano Leszczynski, sottolinea la profonda incertezza degli scenari futuri
Le ong si sono spese in maniera davvero particolare per aiutare la società civile afgana a costruire un futuro diverso. Le speranze, i sogni degli ultimi vent’anni rischiano di andare in fumo?
Sì, è così. Noi viviamo un clima che è un misto di incredulità per quanto successo e di rabbia perché la realtà è anche troppo grande da affrontare, sicuramente non possiamo farlo da soli. C’è poi tanta paura per i colleghi del nostro ufficio che si trova a Kabul. Sono tutti afgani e definirli terrorizzati è dir poco. L’emergenza è enorme, c’è devastazione e la gente scappa dalle abitazioni. I corsi di formazione che avevamo offerto online per le donne afgane, specie in tempo di lockdown, ci permettono ora di comunicare con queste persone. Siamo scioccati ascoltando le loro testimonianze, molte si trovano nel Nord del Paese, in gran parte già conquistato dai talebani. Addirittura la notte cercano di collegarsi per studiare, ma non è facile.
Le giovani donne sono cresciute in un Afghanistan che aveva grandi spazi di inclusione e cambiamento per il mondo femminile. Per loro non si tratta di un ritorno al passato, ma di uno stravolgimento della vita?
Assolutamente e fanno fatica ad accettarlo. Si tratta di donne che hanno studiato, che lavorano e che hanno anche affrontato il grande problema della mobilità. Noi le abbiamo supportate anche in questo, a spostarsi in sicurezza. Oggi si trovano davanti ad una realtà oscena, non sappiamo se potranno studiare e lavorare o se saranno chiuse in casa. Navighiamo a vista, in questo momento possiamo solo far fronte all’emergenza con l’assistenza sanitaria e fornendo cibo alle famiglie più povere.
La fine dell’intervento militare in Afghanistan era stata accompagnata dalla promessa di non abbandonare dal punto di vista della cooperazione il Paese. Avete avuto qualche segnale da parte delle istituzioni di voler continuare a proteggere queste persone con cui lavorate?
Sì, devo dire di sì. Sia dalle istituzioni con cui lavoriamo e da quelle italiane con cui collaboriamo. C’è questa volontà, ma non sappiamo se sarà possibile rimanere. Se la situazione diventa ingestibile le ambasciate, i consolati inizieranno a chiudere. Cosa accadrà allora a queste persone? Alle colleghe ed ai colleghi con cui lavoriamo da più di dieci anni? Non lo sa nessuno, ed è questo il motivo del terrore.