La Trasfigurazione, l’ultimo Raffaello

Vatican News

Paolo Ondarza – Città del Vaticano 

Il volto di Cristo, trasfigurato dalla luce, luminoso come il sole: è probabilmente l’ultimo viso delineato dal pennello di Raffaello Sanzio prima della morte prematura avvenuta forse per febbri malariche all’età di trentasette anni il 6 aprile 1520. 

Sul letto di morte di Raffaello

Proprio quello sguardo potente che con la sua carica vitale cattura chiunque sosti di fronte alla grande tavola della Trasfigurazione nella Sala VIII della Pinacoteca Vaticana ha accompagnato il transito, gli ultimi istanti della vita terrena, del grande pittore rinascimentale. Il dipinto fu infatti posto accanto al letto di morte di Raffaello. Vasari ricorda come il contrasto tra la vitalità dell’opera ed il corpo senza vita facesse “scoppiare l’anima di dolore”.

La più bella, la più divina

Ed è sempre l’autore delle “Vite” a definire la “Trasfigurazione” come “la più celebrata, la più bella e la più divina” fra le tante dipinte da Raffaello”. Commissionata per la cattedrale di san Giusto a Narbonne dall’allora vescovo, il cardinale Giulio de Medici, futuro Papa Clemente VII, nel 1516, insieme alla Resurrezione di Lazzaro dipinta da Sebastiano del Piombo e oggi conservata alla National Gallery, II, l’opera rimase in Italia dove fu collocata nella chiesa romana di san Pietro in Montorio. Dopo il Trattato di Tolentino del 1797 fu portata dalle truppe Napoleoniche in Francia per poi essere restituita nel 1816 quando entrò a far parte delle collezioni pontificie.

Teatralità

In una composizione teatrale che vede i personaggi disposti su due piattaforme sceniche, Raffaello collega due avvenimenti della vita di Cristo narrati in successione dagli evangelisti Marco, Matteo e Luca: in alto sul Monte Tabor rappresenta la Trasfigurazione, in basso la guarigione del fanciullo ossesso. I gesti enfatici, il dinamismo delle figure e il ricorso a molteplici fonti di luce favoriscono un intenso coinvolgimento emotivo.

Il prodigio del Tabor  

In alto su un cielo in cui si alternano bianchi caldi e freddi, azzurro, grigio e giallo, Cristo irradia bagliore dal viso e dalle vesti bianche. È attorniato da Elia e Mosè che conversano con lui, mentre Pietro, che pochi istanti prima aveva chiesto di allestire tre tende e restare sul monte, insieme ai compagni Giacomo e Giovanni, faccia a terra, è sconvolto alla visione di una nube che li avvolge e all’udire una voce dal cielo che dice “Questo è il mio figlio amatissimo, ascoltatelo!”. Sulla sinistra assistono alla scena due figure: forse i santi Giusto e Pastore, patroni di Narbonne, ricordati dalla Chiesa il 6 agosto nella solennità della Trasfigurazione; oppure Agapito e Felice, diaconi di Sisto II, con lui martirizzati nello stesso giorno.

La luce e il pathos

La luce crepuscolare che rimanda alla pittura veneta separa la solennità della Trasfigurazione dalla contrastante, turbata, scura, quasi caravaggesca, realistica “guarigione dell’ossesso” ai piedi del monte: gli apostoli e i familiari del ragazzo posseduto dal male, teso e sconvolto, sono divisi in gruppi contrapposti, gesticolanti in pose concitate ed espressive. Per secoli si è pensato che le due scene fossero riconducibili a mani diverse: Raffaello in alto e Giulio Romano in basso. La maggior parte degli studi ha poi concordato per entrambe sulla paternità di Raffaello, ma la questione resta aperta.