Musica per far aprire gli occhi

Vatican News

di Giuseppe Fiorentino

Non era mai successo prima che una star, anzi una superstar del rock decidesse di mettere la sua musica e la sua influenza al servizio di una nobile causa. Era il 1971 e nel mondo, allora tutt’altro che iperconnesso, circolavano, non senza difficoltà, le immagini dei profughi vittime della guerra e delle inondazioni che flagellavano il Bangladesh. Si parlava di un milione di persone costrette a fuggire in India per sottrarsi alle violenze del conflitto di indipendenza dal Pakistan e alle devastazioni causate dalle piogge monsoniche. 

L’occidente del post-boom economico, ricco e ormai sull’orlo del disimpegno dopo gli anni della contestazione pacifista, a malapena si accorse della lontana tragedia, che però venne prepotentemente portata alla ribalta grazie all’iniziativa di George Harrison, chitarrista e “terzo compositore” dei Beatles.

Ci sarebbe da riflettere su una società che per accorgersi del vicino sofferente ha bisogno delle indicazioni della celebrità di turno, ma sta di fatto che il Concerto per il Bangladesh, ospitato dal Madison Square Garden di New York il 1° agosto di cinquanta anni fa, ha inaugurato tutta quella serie di show benefici che di volta in volta hanno visto i musicisti rock impegnarsi per combattere la fame in Africa, l’apartheid in Sud Africa, o la crisi economica e alimentare in Cambogia.

Certo, mezzo secolo fa, quando Harrison — su suggerimento di Ravi Shankar, suo amico e maestro di sitar di origine bengalese — decise di organizzare l’evento, non poteva certo immaginare di lasciare un segno così profondo. Proprio lui che nei Beatles aveva sempre faticato a ritagliarsi uno spazio, stretto com’era tra quei due geniacci di Lennon e McCartney. Forse George non veniva preso troppo sul serio dai suoi sodali perché era il più giovane o forse perché il suo carattere era molto schivo, benché a tratti dotato di un’ironia davvero caustica. Eppure nell’animo del “quiet Beatle” (il beatle calmo come era stato non proprio generosamente definito) covava un fuoco creativo tutt’altro che banale, capace di forgiare piccoli capolavori come Here Comes the Sun o Something e soprattutto di esplorare nuovi territori sonori come l’elettronica e la musica indiana che, vale la pena sottolinearlo, all’epoca era del tutto sconosciuta in occidente.

Attraverso  George Harrison, profondamente attratto dalla spiritualità e dalla cultura indiana, il suono del sitar e delle tabla divenne familiare anche in America e in Europa. E con esso un tipo di sviluppo musicale che, come argomenta Emmanuel Carrère nel suo ultimo libro, non cerca un procedimento lineare (strofa, ritornello, strofa) ma si diffonde in tutte le direzioni, partendo da un centro stabile, un po’ come le onde causate da un sasso lanciato in uno stagno.

Per tramite di Harrison, la musica indiana divenne talmente popolare che la prima facciata del triplo album in cui venne raccolto il Concerto per il Bangladesh (che in realtà era composto da due show, uno svoltosi alle due del pomeriggio e uno alle otto di sera) era interamente occupata da una lunga esibizione di Ravi Shankar. Provate ad immaginare che effetto avrebbe ora la musica di un attempato signore indiano su migliaia di ragazzi che attendono impazienti di osannare il loro idolo rock. Erano davvero altri tempi, né migliori né peggiori, solo diversi e più inclini all’ascolto che al consumo, anche se la musica pop era già capace di muovere valanghe di denaro.

Grazie ad Harrison almeno un po’ di quei soldi giunse alle popolazioni del Bangladesh. Con i due concerti, ai quali assistettero complessivamente 40.000 persone, vennero immediatamente incassati ed inviati nel subcontinente indiano attraverso l’Unicef 250.000 dollari. Negli anni successivi e nonostante le pastoie fiscali, la cifra lievitò fino ad oltre 12 milioni di dollari dovuti ai proventi della vendita dell’album e dei diritti legati alla diffusione del film. 

Certo, nella sua piccola, grande impresa l’ex chitarrista dei Beatles era in buona compagnia: una schiera di musicisti a dir poco nutrita partecipò infatti ai due concerti. Merito (o la colpa, a secondo dei punti di vista) del produttore Phil Spector, fautore del cosiddetto Muro del suono (Wall of Sound), il quale dopo aver riempito di stucchi ed orpelli barocchi l’ultimo disco dei quattro di Liverpool, venne chiamato da Harrison che si apprestava a sfornare All Things Must Pass.

Nell’idea di Spector, per sviluppare un livello sonoro “accettabile” era necessario un numero di esecutori che oggi apparirebbe a dir poco esagerato. Sul palco del Madison Square Garden arrivarono quindi ad esibirsi contemporaneamente fino a 26 tra strumentisti e cantanti. Un vero inferno per i tecnici del suono e per i roadies che dovevano montare e smontare l’amplificazione. Paul McCartney e John Lennon non parteciparono, il secondo sembra perché non era disposto a cantare senza l’adorata Yoko Ono. Ma accanto ad Harrison erano musicisti del calibro di Eric Clapton, Ringo Starr, Billy Preston (che qualche anno prima aveva suonato con i Beatles nel celebre concerto sul tetto) i Badfinger e Leon Russell (un pianista/cantante dalla voce simile a quella di Mick Jagger e dai capelli davvero troppo lunghi). Tutti insieme, tranne qualche rara incursione solista (di rilievo It Don’t Come Easy di Ringo e That’s The Way God Planned It di Billy Preston), riproposero gran parte del repertorio di Harrison con i Beatles e alcuni successi tratti da All Things Must Pass.  

Ma a rubare la scena fu soprattutto lui, mister Bob Dylan, che l’amicizia con Harrison riuscì a sottrarre ad una sorta di autoesilio. La testimonianza discografica dei due show di un Dylan ancora incline ad una vocalità aperta e condivisa resta uno dei momenti più alti dell’album e forse di tutti i dischi dal vivo che da quel momento si sono succeduti sul mercato. Mette ancora i brividi ascoltare Dylan che declama i versi amari ed intimisti di Just Like a Woman o quelli ossessivi ed inquietanti di A Hard Rain’s A-Gonna Fall

Sono trascorsi cinquanta anni, ma di dure piogge pronte a cadere ce ne sono ancora e forse molte di più che nel 1971, come ben sanno i milioni di profughi che ogni giorno sono costretti a fuggire dalle guerre e dalle devastazioni climatiche. Una canzone non servirà certo a cambiare le cose, ma oggi come allora può servire a far aprire gli occhi e i cuori.