di Giordano Contu
C’è un messaggio di speranza per i 12 mila detenuti di Cali. È una lettera scritta da un figlio. Un video. Una fotografia che ritrae la propria famiglia. La Chiesa locale si fa portatrice di questi pensieri e istantanee. Ciò è diventato fondamentale durante la pandemia, quando erano state sospese le visite dei familiari, dei volontari e i laboratori. Adesso gli incontri stanno riprendendo, anche se molto sporadicamente. In questo tempo sospeso, lungo un anno e mezzo, la pastorale penitenziaria della capitale colombiana ha continuato a dare assistenza spirituale, pastorale e psicologica. Si è parlato anche di ciò lo scorso 15 luglio al forum «Verso una giustizia riparativa dell’essere», sul sistema carcerario e i diritti umani, organizzato dall’arcidiocesi di Cali e dal ministero della Giustizia. Il convegno ha fatto il bilancio del progetto «Promozione della dignità umana e reinserimento sociale nelle carceri della giurisdizione dell’arcidiocesi di Cali» finanziato dalla Conferenza episcopale italiana. «Voglio ringraziare profondamente la Cei», dice a «L’Osservatore romano» don Carlos Alberto Usma Giraldo, delegato dell’arcivescovo per la pastorale penitenziaria locale. «Il nostro obiettivo primario è aiutare le persone private della loro libertà, così come le loro famiglie e gli ex detenuti, a incontrare nuovamente Dio. Li aiutiamo a riscoprire se stessi, a risocializzare, a credere in una seconda opportunità».
C’è un evento che più di tutti ha segnato l’inizio del ritorno alla normalità. È la Festa del papà che si è tenuta lo scorso 15 giugno nel Centro de atención transitoria (Cat) di San Nicolás, una struttura che ospita 480 uomini in attesa di entrare in carcere. Per l’occasione è stata celebrata l’eucaristia e commentato un passo della Lettera agli Ebrei: «Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere» (Ebrei, 13, 3). Fulcro dell’iniziativa erano i messaggi dei familiari. «Alcuni hanno salutato i genitori per la prima volta, senza vederli dietro le sbarre, anche se hanno condanne molto alte», racconta il sacerdote. «Abbiamo dato una parola di speranza e di incoraggiamento, perché sono privati della libertà, ma non della dignità». Ad allietare l’evento ci ha pensato anche l’orchestra musicale della Polizia nazionale, mentre i volontari hanno distribuito beni di prima necessità.
La Festa del papà è stata un’occasione per dire ai detenuti e ai loro familiari che nonostante la pandemia non ci si è scordati di loro. «Il cuore della Chiesa è rivolto ai detenuti. Li accompagniamo perché per noi sono importanti e vale la pena credere in una conversione. Sono figli fatti a immagine e somiglianza di Dio», dice don Carlos. Le famiglie sono uno dei cardini dell’azione della pastorale penitenziaria. Lo raccontano bene le lacrime di gioia di un genitore che fissa il video di un figlio felice che stringe al petto un regalo di Natale e che è circondato dall’affetto dell’equipe pastorale. O il sorriso di un marito che guarda la foto di una delle 250 donne detenute con i figli minori (fino a 4 anni) assistite dai catechisti, come Karen Guerrero, che da nove anni insegna nelle carceri di Cali. In un istante una foto colma il vuoto di un’anima che trabocca di amore. «Lavoriamo soprattutto con i bambini: cerchiamo di fargli comprendere perché la loro mamma o il loro papà è in carcere, gli insegniamo a essere resilienti e a trovare strumenti per proseguire la loro vita», racconta il presule. L’intervento pedagogico si struttura come un accompagnamento psicologico, pastorale, spirituale e valoriale ed è finalizzato a che i bambini credano maggiormente in se stessi.
La pastorale penitenziaria di Cali si occupa di migliaia di persone ristrette, dislocate tra la prigione di Villahermosa, il complesso di Jamundí, 25 stazioni di polizia e il centro minorile. «Con un’equipe di psicologi accompagniamo i carcerati, le loro famiglie e gli ex detenuti. Li aiutiamo nella gestione delle emozioni, sotto il profilo affettivo, e a ricostruire i legami familiari e il tessuto sociale lacerato», spiega il delegato ai penitenziari. L’equipe pastorale, guidata direttamente da don Carlos, accompagna i detenuti attraverso i laboratori e con parole di incoraggiamento e di speranza. C’è poi la squadra dei cappellani che offre sostegno spirituale attraverso i sacramenti dell’eucaristia e della riconciliazione. Un forte impulso alle attività con i detenuti è dato dalla Fundación dignidad y amor che si occupa di formare i volontari e sensibilizzare i benefattori. E ha in cantiere alcune iniziative: la creazione di una mensa insieme alla pastorale sociale diocesana per distribuire il cibo nei penitenziari, l’apertura di una panetteria per dare lavoro a chi ha scontato la propria pena. «Stiamo progettando la Fondazione in modo che diventi una casa per ex detenuti. Una casa di transizione in cui riposare appena usciti dal carcere, in cui vivere gli affetti con i familiari, accompagnati delle psicologhe e dall’equipe pastorale che li preparano al ritorno a casa», dice il presule.
Il personale di custodia e di sorveglianza è l’altro importante cardine intorno a cui ruota la pastorale penitenziaria. «Alle guardie insegniamo che san Paolo è stato in carcere, che san Pietro è stato in carcere, che nostro Signore Gesù è stato in carcere. E che mai hanno abbandonando la mano di Dio che li ha aiutati», prosegue don Carlos. Per la Chiesa locale questa è una sfida che negli ultimi anni ha dato tante soddisfazioni. «Nella misura in cui evangelizziamo i custodi, loro possono trattare meglio chi è stato privato della libertà». Per insegnare ai custodi che i detenuti sono loro fratelli il sacerdote commenta spesso un passo della Genesi: «il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”». «Il Signore replica con un sì. Ognuno è responsabile dell’altro. Ancora di più se ha potere, poiché è subordinato all’altro», afferma il delegato pastorale. Sensibilizzare è fondamentale. «Noi lo facciamo con la testimonianza, mostrando alle guardie il volto misericordioso di Dio grazie ai ritiri spirituali, alle convivenze e all’eucaristia. Questo ha fatto sì che la loro spiritualità si facesse prossima a Dio e ai fratelli detenuti». Coltivando l’umanità si responsabilizzano e grazie a essa oggi godono di maggior rispetto tra i detenuti. Certo, c’è ancora tanto da fare, ma il progresso fatto è tangibile.
Altri problemi restano insormontabili. Come il sovraffollamento che segna un triste +20,6 per cento. Secondo i dati governativi dell’Istituto nazionale penitenziario e carcerario colombiano (Inpec) ci sono 97.606 detenuti in 132 strutture, a fronte di una capacità totale che invece è di 80.900 persone. Al di là delle difficoltà, la pastorale penitenziaria di Cali cerca di far sì che le persone private della propria libertà prendano coscienza del valore immenso che esse hanno agli occhi di Dio. «La società continua a emarginarli — conclude don Carlos — invece noi li nobilitiamo. Perché è necessario ridargli dignità ma anche rafforzarli, offrendo loro strumenti che possano utilizzare nel momento in cui usciranno di prigione e dovranno ricostruirsi il tessuto sociale che era stato danneggiato». Per restituire alla società una persona convertita. Per costruire una comunità che offra una seconda chance.