Myanmar: l’Onu chiede nuove sanzioni contro la giunta militare

Vatican News

Marco Guerra – Città del Vaticano

Sanzioni economiche contro il settore petrolifero e del gas del Myanmar. E’ quanto chiede un esperto di diritti umani delle Nazioni Unite ai tutti i Paesi della comunità internazionale, per paralizzare la giunta militare che ha preso il potere con un golpe il 1° febbraio scorso.

Richiesta di nuove sanzioni

“Sto parlando di pressione economica, tagliando le entrate di cui la giunta militare ha bisogno per continuare a detenere il potere. Sto parlando di tagliare l’accesso alle armi e alla tecnologia”. Sono le dichiarazioni di Thomas Andrews, relatore speciale sui diritti umani in Myanmar, al Consiglio per i diritti umani dell’Onu. Andrews, ex deputato degli Stati Uniti, ha chiesto di formare una “coalizione di emergenza per il popolo birmano”, essenzialmente un gruppo di Stati, che vieterebbe anche l’esportazione di armi ai militari. “Ci deve essere pressione”, ha ribadito. Nessuno Stato ha ancora imposto sanzioni al settore petrolifero e del gas del Myanmar, sebbene alcuni le abbiano già applicate sulle imprese controllate dai militari e sui proventi delle gemme, del legname e dell’estrazione mineraria, ha spiegato ancora l’esponente delle Nazioni Unite.

Il ruolo dell’Asean

In precedenza, il massimo funzionario dell’Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha esortato i Paesi dell’ASEAN (l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico) ad avviare un dialogo politico con la giunta militare e la leadership democraticamente eletta in Myanmar. Le Nazioni Unite vogliono poter fornire aiuti umanitari ai civili in Myanmar, come concordato con l’ASEAN, senza che siano “strumentalizzate” dai militari, ha detto Bachelet. “Incoraggio l’ASEAN  – ha aggiunto – a impegnarsi con la leadership democratica e la società civile, non solo con il fronte militare”.

900 morti nelle proteste

Intanto nel Paese non si allentano le proteste e la repressione militare. Le dimostrazioni sono iniziate quando i militari hanno estromesso il governo di Aung San Suu Kyi, cinque mesi fa. La brutale repressione di scioperi e manifestazioni ha causato circa 900 morti e 5200 detenzioni, secondo fonti internazionali. Nel Paese imperversano anche i combattimenti tra le truppe governative e le milizie delle minoranze etniche che sostengono la protesta.

Attaccata la città di Depayin

Ieri si è diffusa la notizia di una violenta azione dell’esercito contro la città agricola di Depayin. I militari sono intervenuti per neutralizzare una milizia locale che si oppone alla giunta golpista. Secondo le testimonianze raccolte dall’agenzia Reuters, i camion dell’esercito sono arrivati ​​a Depayin all’alba di venerdì scorso; i giovani locali si sono radunati per reagire, ma sono stati rapidamente sopraffatti. I medici locali hanno detto che sono stati trovati 41 corpi senza vita. La People’s Defense Force (PDF) ha dichiarato di aver perso 26 dei suoi membri, ma si è impegnata a continuare a combattere. Migliaia di persone sono fuggite dalla città, portando qualsiasi cosa riuscissero a trasportare.  I media riferiscono di disordini in tutto il Myanmar con rapporti regolari di scontri localizzati e l’arresto di oppositori. Anche gli attentati sono aumentati di frequenza, in particolare a Yangon, l’ex capitale e tuttora centro degli affari. Secondo un conteggio di Reuters, a luglio si sono già verificati almeno 12 attacchi di questo tipo in tutto il Paese.

Gabusi (Università Torino): sanzioni siano “chirurgiche”

“La giunta ha grandissimi interessi nel settore del gas, del petrolio e nella materie prime in generale, quindi affrontare questo tema è necessario, e dobbiamo ricordarci che in questi settori sono coinvolte multinazionali occidentali”, spiega a Vatican News Giuseppe Gabusi, docente di economia politica internazionale e dell’Asia orientale presso l’Università di Torino. L’esperto ricorda però che le sanzioni molte volte non hanno prodotto alcun risultato e hanno aggravato le condizioni della popolazione: “Bisogna fare molta attenzione ed intervenire in maniera chirurgica; certamente settori come il tessile coinvolgono di più la popolazione civile e vanno risparmiati”.

Ascolta l’intervista al prof. Gabusi

Cina imprescindibile nella mediazione

Gabusi si sofferma sulle divisioni regionali, che vedono posizioni lontane tra un gruppo di Paesi più autoritario, tra cui Vietnam e Thailandia, e Paesi come la Malaysia e l’Indonesia più aperti dalla democrazia, che vedono di buon occhio il ritorno al potere di un governo civile in Myanmar. “Certamente non è possibile ottenere una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, perché vedrebbe il voto contrario di Cina e Russia – afferma in conclusione il professore dell’Università di Torino -; ma nella mediazione non si può prescindere da Pechino, che comunque non è contenta della situazione di instabilità in Myanmar”.