“Donne Chiesa Mondo”, mafie e abuso di religione

Vatican News

di Bianca Stancanelli

C’è il boss latitante che custodisce nel suo bunker sotterraneo il ritratto della Vergine in una cornice d’oro. C’è la vedova di ‘ndrangheta che prega la Madonna di rivelarle i nomi degli assassini del marito perché i figli possano vendicarlo. C’è il killer che invoca la benedizione di Maria prima di impugnare le armi.

Sulla figura della Madonna si allungano “i lacci delle mafie”, come li ha definiti papa Francesco, soprattutto in Calabria. E in Calabria, nelle trincee giudiziarie più esposte contro la ‘ndrangheta, ha trascorso quasi per intero i suoi trent’anni di lavoro come pubblico ministero Marisa Manzini, la donna magistrato che nel settembre scorso la Pontificia Accademia Mariana Internazionale ha nominato tra gli esperti del neonato Dipartimento di analisi e di studio dei fenomeni criminali e mafiosi.

Piemontese, Manzini, che è stata anche consulente della commissione d’inchiesta sulla mafia del Parlamento italiano, è oggi procuratore aggiunto presso il tribunale di Cosenza. Donne Chiesa Mondo le ha chiesto di parlare della propria esperienza.

Vuol tracciare un primo bilancio del suo lavoro nella pami?

In questi primi mesi è stata messa a punto un’idea di divulgazione, con il proposito di far conoscere che cosa è la mafia e, per quel che mi riguarda, che cosa è la ‘ndrangheta. Abbiamo lavorato su seminari, aperti a un pubblico ampio, anche di imprenditori, perché in questo momento storico, con le difficoltà create dalla pandemia, la tendenza della ‘ndrangheta a infiltrarsi nell’economia è particolarmente pericolosa. Poi abbiamo cominciato a trattare la capacità delle mafie di ottenere consenso, strumentalizzando i valori conosciuti da tutti i cittadini, primi fra tutti i valori religiosi. Noi siamo una nazione cristiana, cattolica. Conosciamo le regole della Chiesa, i suoi valori. La ‘ndrangheta e le mafie in generale usano i riti, le cerimonie, i simboli religiosi per ottenere consenso.

Il 15 agosto 2020, in una lettera indirizzata nel giorno della Festa dell’Assunta all’Accademia Mariana, il Papa ha scritto che occorre “liberare la Madonna dai lacci delle mafie”. Come spiega l’insistenza delle associazioni criminali sulla figura di Maria?

Mi sono soffermata molto – e non io soltanto – sulle ragioni della particolare predilezione della ‘ndrangheta per la figura della Madonna. Credo che la risposta vada cercata nella particolarità di questa associazione criminale: la ‘ndrangheta, rispetto alle altre mafie, è criminalità organizzata che si fonda sui legami familiari. All’interno della famiglia, la donna ha un ruolo rilevante: genera le persone che andranno a formare l’esercito ndranghetista, trasmette ai figli i disvalori mafiosi, protegge il nucleo familiare e ne garantisce l’unità.

Alla Madonna si attribuiscono compiti analoghi?

Sì, io credo che vi sia da parte degli ndranghetisti l’individuazione della Madre di Cristo come Colei che può tutelare il nucleo della famiglia, non strettamente anagrafico, unificandolo e ricomponendo, anche attraverso la vendetta, le fratture che dentro quel nucleo si creano. È una funzione importante. Spesso si è ritenuto che la donna, all’interno delle famiglie di ‘ndrangheta, abbia un ruolo secondario, ma non è così. Malgrado l’organizzazione sia maschilista e sia affidato ai maschi il compito di compiere i delitti più efferati, la donna ha il ruolo decisivo di assicurare l’unità e la compattezza del nucleo familiare.

È noto che la ‘ndrangheta ha celebrato tradizionalmente i suoi riti e le sue riunioni nel Santuario della Madonna di Polsi, luogo che considera sacro. È ancora così?

C’è purtroppo il precedente gravissimo di don Pino Strangio, rettore del Santuario e parroco di San Luca, il comune dove si trova il Santuario, che venne accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 2017 il vescovo di Locri ha accolto la sua richiesta di dispensa dall’incarico, prendendo una posizione molto netta, e ha chiesto al nuovo rettore, don Tonino Saraco, di restituire quel luogo sacro ai fedeli.

All’ostentazione pubblica si affianca l’esibizione privata della devozione. Nel bunker sotterraneo dove si nascondeva, da latitante, il boss calabrese Nicolino Grande Aracri, venne trovato un dipinto, con una vistosa cornice d’oro, che raffigurava, appunto, la Madonna di Polsi.

Non gli venne trovata solo quell’effigie. In una perquisizione nella sua casa si scoprì anche una statua della Madonna e una di San Michele Arcangelo, molti santini. In modo distorto, inaccettabile per chiunque conosca la religione cristiana, Grande Aracri si sente probabilmente un uomo religioso. Ripeto: per noi è inaccettabile, ma è così.

Un po’ come i fratelli mafiosi Graviano che si facevano il segno della croce prima di sedersi a tavola anche dopo aver ordinato di uccidere il parroco palermitano don Pino Puglisi.

Ricordo una donna calabrese che mi colpì, si chiamava Giuseppina Iacopetta. Le era stato ucciso il marito e, in un’intercettazione, la sentii pregare la Madonna affinché aiutasse i suoi figli a trovare gli assassini del padre perché il sangue di quegli uomini potesse scorrere ai suoi piedi. Pregava veramente la Madonna per questo, con convinzione.

Da piemontese, lei ha trascorso quasi tutta la sua esperienza professionale come magistrato in Calabria. Quando si accorse della pretesa della ‘ndrangheta di usare la religione a fini di consenso?

Ero uditore giudiziario a Torino nel 1992, l’anno delle stragi mafiose. Come tutti i tirocinanti che amavano il diritto penale, mi sentii talmente coinvolta dall’assassinio di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino da voler fare un’esperienza al Sud. Su consiglio di un collega più anziano, scelsi la Calabria. Cominciai da Lamezia Terme. E iniziando a studiare il fenomeno della ‘ndrangheta, leggendo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, interrogandoli, subito mi resi conto del modo in cui viene strumentalizzata la religione. Basti dire che l’inserimento nella famiglia criminale avviene attraverso una cerimonia che viene chiamata il “battesimo”.

Nel giugno 2014 il Papa scelse proprio la Calabria per pronunciare la sua scomunica contro i mafiosi. Quale eco ebbero quelle parole, soprattutto nell’organizzazione criminale?

È stato un grido che ha consentito di prendere coscienza. Quelle parole hanno dato un grande scossone alla chiesa, ai vescovi. La Cei calabrese ha assunto una posizione molto netta contro lo strapotere ’ndranghetista nello strumentalizzare la religione. Anche dopo, però, ci sono stati tentativi di condizionare le processioni: nel 2014, per esempio, l’inchino della Madonna davanti alla casa di un boss a Oppido Mamertina, comune in provincia di Reggio Calabria. In quell’occasione il vescovo ha subito reagito, impedendo di proseguire nelle processioni se queste dovevano essere l’occasione per appiattirsi di fronte alle richieste degli ndranghetisti.

Lei ha pubblicato un libro intitolato «Fai silenzio ca parrasti assai». Parrasti: parlasti… Un arrogante invito al silenzio rivolto da un boss, Pantaleone Mancuso, a un magistrato. Quanto è efficace la parola contro la ‘ndrangheta?

Ero io quel magistrato. Da pubblico ministero in un processo, avevo appena finito di interrogare un collaboratore di giustizia quando Mancuso cominciò a inveire contro di me. Le sue frasi erano rivolte a me, ma soprattutto al territorio. Il boss, benché fosse al 41 bis e parlasse in videoconferenza, voleva lanciare un messaggio preciso a chi lo ascoltava: attenzione, sono ancora io il capo. La mafia e la ‘ndrangheta hanno certamente paura delle parole. La loro legge è il silenzio, chi parla scardina dall’interno le chiusure di quel mondo.

Per la prima volta un magistrato, vittima di mafia, Rosario Livatino, è stato proclamato beato dalla Chiesa. Quali emozioni, quali riflessioni le ha provocato questa beatificazione?

Io sono credente; tutto quello che ho fatto nella mia esistenza l’ho fatto con la consapevolezza che ci sono valori ai quali bisogna riferirsi. Così, la beatificazione di Livatino, un magistrato che era prima di tutto una persona di fede, è stata per me una grande felicità. Per chi svolge la mia professione, deve rappresentare una luce che ci guida.