Paolo Ondarza – Città del Vaticano
La presenza di Dio e la sua desolante assenza rappresentate in pochi metri quadri di superficie dipinta ad affresco. Le scene della Conversione di Saulo e della Crocefissione di San Pietro eseguite tra il 1542 ed il 1550 sulle due pareti contrapposte della Cappella Paolina, cuore dei Palazzi Apostolici, sono l’ultima fatica pittorica di Michelangelo Buonarroti.
Cuore del Palazzo Apostolico
Nota come “cappella parva”, cioè “piccola” in contrapposizione alla vicina Sistina, la “cappella magna”, fu commissionata da Paolo III Farnese ad Antonio da Sangallo il Giovane quale luogo riservato al Papa e alla famiglia pontificia, destinato all’esposizione del Santissimo Sacramento. Il Pontefice, nella legittimità della sequela apostolica e nella fedeltà all’ortodossia, è infatti custode del “Corpus Christi” e questo prezioso spazio sacro, inaccessibile al pubblico, è un luogo identitario della Chiesa Cattolica. Qui sono effigiati da vari artisti gli episodi salienti dei santi Pietro e Paolo, fondamenti della gerarchia e della dottrina. Tra i dipinti di Lorenzo Sabatini e Federico Zuccari, spiccano per l’innovativo impianto compositivo e per il complesso significato simbolico, storico e teologico, i murali michelangioleschi, pura lirica religiosa.
Dopo il Giudizio Universale
Appena conclusa la fatica immane del Giudizio Universale, stanco, malato, anziano, all’età di settant’anni, preoccupato dal progetto della cupola di san Pietro e dell’allestimento della Piazza del Campidoglio, il Maestro si rimette al lavoro. Il tema è dato dai due momenti essenziali della vita del cristiano: la conversione ed il martirio, offerti alla meditazione del Pontefice.
La grazia e la conversione
La prima scena a cui Michelangelo mette mano è la conversione di Saulo: la composizione sembra mancare di un centro. Lo scorcio della fuga in profondità del cavallo che ha disarcionato il protagonista, separa il primo piano dallo sfondo delle colline sulle quali si intravede Damasco, immaginata come una città greca. Il pesante corpo di Saulo, sorretto a fatica da due figure, sembra proiettarsi al di fuori della superficie dipinta. Sebbene la conversione di Saulo sia avvenuta in età giovanile, il suo volto è quello di un uomo avanti negli anni – forse una licenza autobiografica del pittore – che cerca la luce della verità. Audace anche la prospettiva con cui dall’alto si protende la figura di Cristo da cui si irradia una luce innaturale che taglia verticalmente in due la scena. Gesù scende in un bagliore accecante a prendere e convertire colui che diverrà l’Apostolo delle Genti. La grazia è donata inspiegabilmente all’umanità per la salvezza. In cielo gli angeli, a terra i compagni di Saulo, si fanno da parte, a destra e sinistra, per lasciar spazio all’incontro, assordante, tra il divino e l’umano. L’immagine ha un’alta carica drammatica nel turbinio di figure, ma ispira la pace e la sicurezza, proprie della maturità dell’uomo interiormente illuminato dall’incontro con il Signore.
L’esempio del martirio
Dio è invece assente nella Crocefissione di Pietro, scena affollatissima, ma silenziosa, in cui il cielo è solo marginale, il paesaggio assente, lo spazio abitato da un’umanità peccatrice. Il martirio del primo Papa è tragico, solitario, senza respiro. Grande la tensione emotiva. Raggomitolato a terra un uomo scava il buco all’interno del quale sarà incastrata la croce che domina diagonalmente il quadro; quasi speculare è il gesto di torsione con cui Pietro, sul legno del supplizio, solleva la testa per testimoniare fino alla morte la fede nel Risorto ed offrirsi consapevolmente al martirio. Lo sguardo corrucciato dell’anziano pescatore di Cafarnao, dal corpo ancora vigoroso e atletico, sembra diretto ad ammonire chi guarda, il suo Successore.
La croce e la luce della fede
Sulla croce sta accadendo quanto Gesù aveva predetto al suo Apostolo invitandolo alla sequela: “Quando sarai vecchio un altro ti porterà dove tu non vuoi”. “Se in questa Cappella si viene a meditare”, ha detto Benedetto XVI inaugurandone i restauri il 4 luglio 2009 – “non si può sfuggire alla radicalità della domanda posta dalla croce: la croce di Cristo, Capo della Chiesa, e la croce di Pietro, suo Vicario sulla terra”. “Per chi viene a pregare in questa Cappella, e prima di tutto per il Papa”, ha aggiunto, “Pietro e Paolo diventano maestri di fede. Con la loro testimonianza invitano ad andare in profondità, a meditare in silenzio il mistero della Croce, che accompagna la Chiesa fino alla fine dei tempi, e ad accogliere la luce della fede, grazie alla quale la Comunità apostolica può estendere fino ai confini della terra l’azione missionaria ed evangelizzatrice che le ha affidato Cristo risorto”.
Espressionismo e tensione drammatica
L’impresa pittorica commissionata da Paolo III fu un lavoro di faticosa pazienza protrattosi per otto lunghi anni su due superfici pittoriche non esageratamente estese – 6.6 x 6.15 metri – che in altri tempi il pittore avrebbe dipiinto in appena sei mesi. Ma troppi sono gli impegni a cui Michelangelo è chiamato e gli affreschi della “cappella parva”, suo testamento spirituale, testimoniano l’agitazione e la tristezza che abitavano la sua interiorità sul finire degli anni quaranta del XVI secolo. Dalle pareti dipinte sembrano erompere le lacerazioni nel mondo cristiano seguite alla Riforma, ma anche la mestizia per la morte dell’amata amica, la poetessa Vittoria Colonna. Il plasticismo delle figure e la tavolozza sono ancora quelli del Giudizio Universale, ma più calcati in questi due ultimi affreschi sono l’espressionismo e la tensione drammatica.
L’ultimo affresco
La suddivisione in “giornate” lavorative emersa dall’analisi della superficie dell’intonaco risulta poco organica e svela un pittore agitato, poco concentrato, discontinuo, attivo sui ponteggi per brevi sessioni di lavoro con lunghe interruzioni e molti pentimenti effettuati a secco. Lo studio della sequenza esecutiva delle scene dipinte ha indentificato nel gruppo delle donne dolenti ai piedi della croce di Pietro, le ultime pennellate della vita di Michelangelo che, compiuta la fatica pittorica, morto Papa Farnese, confiderà al Vasari che non riprenderà più in mano i pennelli perché “la pittura passata una certa età e massimamente il lavorare ad affresco non è arte da vecchi”.