di Gianluca Biccini
L’Ave Maria per il Tigray recitata da Papa Francesco all’Angelus del 13 giugno scorso, insieme con i fedeli presenti in piazza San Pietro per l’appuntamento domenicale di mezzogiorno, è stata solo l’ultimo in ordine di tempo di una serie di interventi con cui il Pontefice ha voluto assicurare la propria vicinanza “alla popolazione della regione” dell’Etiopia, “colpita da una grave crisi umanitaria che espone i più poveri alla carestia”. “C’è oggi la carestia, c’è la fame lì”, aveva aggiunto proprio per sottolineare il drammatico contesto di emergenza, ulteriormente aggravato dal covid-19, invocando preghiere “affinché cessino immediatamente le violenze, sia garantita a tutti l’assistenza alimentare e sanitaria, e si ripristini al più presto l’armonia sociale”. E in proposito aveva anche espresso gratitudine a “tutti coloro che operano per alleviare le sofferenze della gente”.
Del resto Papa Bergoglio e con lui la Santa Sede hanno seguito da vicino l’evoluzione del conflitto, sin dal suo inizio nel novembre scorso: si sono svolti i colloqui con personalità diplomatiche e soprattutto non ha mancato di levare alta la propria voce il vescovo di Roma, che sempre all’Angelus, già l’8 novembre 2020 aveva manifestato preoccupazione per la situazione del Corno d’Africa, implorando di “respingere la tentazione dello scontro armato” ed esortando “tutti alla preghiera e al rispetto fraterno, al dialogo e alla ricomposizione pacifica delle discordie”.
Meno di venti giorni dopo, il 27 dello stesso mese, era stato il direttore della Sala stampa Matteo Bruni a richiamare l’attenzione dei media dichiarando che il Pontefice continuava a seguire le notizie provenienti “dall’Etiopia, dove da alcune settimane è in corso uno scontro militare, che interessa la Regione del Tigray e le zone circostanti. A causa delle violenze, centinaia di civili sono morti e decine di migliaia di persone sono costrette a fuggire dalle proprie case verso il Sudan. Gli scontri, che si sono intensificati di giorno in giorno, stanno già provocando una grave situazione umanitaria”, aveva aggiunto, rimarcando che “il Santo Padre, nell’invitare alla preghiera per questo Paese, rivolge alle parti” interessate un accorato “appello perché cessino le violenze, sia salvaguardata la vita, in particolare dei civili, e le popolazioni possano ritrovare la pace”.
Auspici riecheggiati nei tradizionali discorsi in cui il vescovo di Roma sofferma il proprio sguardo sulle zone più “scottanti” del pianeta, ovvero i messaggi urbi et orbi natalizio e pasquale. In mezzo a questi due interventi, anche nell’incontro di inizio 2021 con i membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede egli aveva fatto riferimento alla tragica vicenda della regione tigrina. “Il Divino Bambino… faccia cessare le violenze in Etiopia, dove, a causa degli scontri, molte persone sono costrette a fuggire”, aveva pregato nel giorno di Natale. “La chiusura dei confini a causa della pandemia, unitamente alla crisi economica, ha accentuato anche diverse emergenze umanitarie, tanto nelle zone di conflitto quanto nelle regioni colpite dal cambiamento climatico e dalla siccità, nonché nei campi per rifugiati e migranti. Penso particolarmente al Sudan, dove si sono rifugiate migliaia di persone in fuga dal Tigray”, era stata la sua forte denuncia davanti agli ambasciatori di tutto il mondo incontrati l’8 febbraio nell’Aula della Benedizione in occasione della presentazione degli auguri per il nuovo anno.
“La forza del Risorto – era stata la supplica elevata da Francesco il 4 aprile, domenica di Pasqua — sostenga le popolazioni africane che vedono il proprio avvenire compromesso da violenze interne e dal terrorismo internazionale, specialmente nel Sahel e in Nigeria, come pure nella regione del Tigray e di Cabo Delgado. Continuino gli sforzi per trovare soluzioni pacifiche ai conflitti, nel rispetto dei diritti umani e della sacralità della vita, con un dialogo fraterno e costruttivo in spirito di riconciliazione e di solidarietà fattiva”.