Nelle catacombe di San Sebastiano la più antica rappresentazione dell’Ascensione

Vatican News

di Fabrizio Bisconti

Nel tempo sospeso della pandemia, le attività della Pontificia Commissione di archeologia sacra non si sono arrestate e anzi hanno assunto un livello di approfondimento persino più accurato, che ha condotto anche a riconsiderare alcune importanti scoperte del passato prossimo, rese note con velocità, nel segno dell’entusiasmo e dell’urgenza.

Nell’ambito di queste riconsiderazioni, siamo tornati a monitorare lo stato di conservazione di alcuni singolari affreschi, scoperti negli anni Novanta del secolo scorso nella regione catacombale dell’ex Vigna Chiaraviglio, situata nel margine settentrionale del comprensorio callistiano, proprio laddove questo lambisce il Vicolo delle Sette Chiese.

La regione, già nota dagli anni Venti, in quanto intercettata durante la costruzione della Casa delle Catacombe, fu oggetto di un meticoloso scavo stratigrafico, che riportò alla luce un’area, sicuramente pertinente al grande complesso di San Sebastiano, interessata da una densa necropoli ipogea, attorno alla tomba del martire Eutichio, di cui si conserva ancora una splendida lastra incisa da Furio Dionisio Filocalo per la eminente committenza del Papa Damaso (366-384).

Quegli scavi recuperarono molte iscrizioni datate, che descrivono un arco cronologico ben preciso, ossia il tempo che dal pontificato di Damaso giunge a quello di Innocenzo i (401-417), quando le catacombe vivevano il momento di massimo sfruttamento, mostrando, però, anche i primi segnali di abbandono, quando le sepolture tornarono al sopratterra, attestandosi attorno ai grandi santuari del suburbio romano, che fungevano da attrattori, da calamita, da poli devozionali per il popolo dei cristiani dell’Urbe.

Le indagini archeologiche hanno permesso di recuperare anche epigrafi e graffiti che ricordano i culti per il martire Eutichio, ma pure per i principi degli apostoli, a cui fu dedicata una basilica, fatta erigere da Costantino per ricordare la memoria apostolorum.

Ebbene, in una piccola galleria della regione dell’ex Vigna Chiaraviglio, si scoprì, nelle indagini degli anni Novanta, un affresco che rappresenta l’abbraccio tra i principi degli apostoli, per tradurre in figura il manifesto politico-religioso della concordia apostolorum e dell’unità della Chiesa delle genti e della circoncisione.

Dinnanzi a questo singolare affresco, si apre un arcosolio, ovvero una tomba scavata nel tufo e coronata da un arco. Anche questo monumento risultò completamente affrescato con un vero e proprio palinsesto pittorico, che mostrava scene estratte dal Nuovo Testamento, ovvero i miracoli delle nozze di Cana, della moltiplicazione dei pani e della risurrezione di Lazzaro. Sulla lunetta dell’arcosolio si riconobbero gli espressivi ritratti dei defunti Primenius e Severa con il figlio, incoronati dal Cristo, che spunta dal cielo di nubi rossastre, tra le lettere apocalittiche.

Nel sottarco, oltre alle scene neotestamentarie di cui si è detto, si intravedono, proprio nel pannello centrale difficilmente leggibile, alcune figure proiettate ancora contro un cielo costellato di nubi rosse, tanto da pensare a una scena di tipo teofanico.

Ebbene un intervento di monitoraggio, volto a eliminare il degrado e la rete di microradici, che hanno aggredito il contesto pittorico in questi ultimi venti anni, ha reso possibile proprio in questi giorni, di riprendere contatto con il quadro pittorico in questione, pur esso interessato dalle sovrapposizioni di ben tre fasi decorative.

Una battuta ortofotografica e un più accurato esame autoptico hanno permesso di riconoscere, nella seconda fase pittorica, una sintetica scena ispirata all’Ascensione del Cristo, ricordata nel Vangelo di Luca (24, 50-53) e negli Atti degli Apostoli (1, 6-11) e che si consuma sul Monte degli Ulivi, laddove ancora si conserva una memoria monumentale.

La scena è costituita da un personaggio nimbato, reso di profilo, che veste una tunica e un pallio svolazzante. Il personaggio tiene il piede destro piantato a terra e poggia il sinistro su una piccola roccia, flettendo il ginocchio e protendendo la mano destra verso l’alto, in direzione di una nube, da cui spunta la mano di Dio. Ai lati di questa figura, due personaggi attoniti spalancano le braccia, impersonando gli apostoli, che si meravigliano e si intimoriscono, dinanzi all’Ascensione del Cristo.

Un primo confronto ci conduce ad Arles, dove si conserva, sia pure assai frammentario, un rilievo pertinente a un sarcofago, anch’esso riferibile allo scorcio del secolo iv, ma l’analogia più diretta ci accompagna verso monumenti più maturi e già nell’inoltrato v secolo, come lo splendido avorio di Monaco di Baviera, che associa la scena dell’Ascensione a quella delle pie donne al Sepolcro, secondo la dinamica che organizza la decorazione di un rilievo, pure della metà del v secolo, relativo al reliquiario marmoreo dei santi. Quirico e Giulitta, proveniente dalla basilica ravennate di San Giovanni Battista e ora al Museo Arcivescovile della città.

La scena dell’Ascensione appena scoperta nella regione dell’ex Vigna Chiaraviglio del complesso di San Sebastiano rappresenta, dunque, l’incipit di una piccola nebulosa di monumenti iconografici, che descrivono la redazione occidentale della raffigurazione e anche la più antica, dal momento che una redazione orientale, che prevede il Cristo, all’interno di una mandorla di luce, innalzato verso il cielo da due o quattro angeli, alla vista di Maria e degli apostoli, ci accompagna verso e oltre il vi secolo, in particolare verso una celebre miniatura del Tetravangelo di Rabbula, verso alcune ampolle plumbee di Monza, verso un reliquiario ligneo un tempo custodito nella Cappella del Sancta Sanctorum del Laterano e verso il catino absidale di una cappella di Bawit, ai confini del deserto egiziano.

Le due redazioni sembrano combinarsi in una formella della porta lignea della basilica romana di Santa Sabina, eretta tra il pontificato di Celestino i (422-432) e Sisto iii (432-440). Qui, sono i messaggeri celesti ad afferrare il Cristo, sollevandolo nell’alto dei cieli, alla presenza di quattro apostoli storditi, disposti sui declivi del Monte degli Ulivi.

In questo panorama figurativo, la nostra scena assurge alla più antica rappresentazione dell’Ascensione del Cristo, ispirandosi, per quanto riguarda il semplice schema, all’apoteosi delle divinità, degli eroi e dell’imperatore del mondo classico, ma anche all’episodio veterotestamentario del ratto di Elia e pure a quello della consegna della legge a Mosè.

È interessante che l’essenziale schema dell’Ascensione, così come si propone nell’affresco appena intercettato nelle catacombe di San Sebastiano, avrà vita lunghissima, tanto che lo ritroveremo nella cappella padovana degli Scrovegni (1303-1305), laddove Giotto e la sua scuola, recuperando la struttura iconografica romana di età teodosiana, rappresentano ancora il Cristo di profilo, che sale verso il cielo, come rapito da una potente forza ascensionale. Ma, in questo caso, le due redazioni, ormai, interagiscono e si complicano. Infatti, all’evento, assistono Maria, gli apostoli e una coppia di angeli, mentre, ai lati, si riconoscono due schiere di angeli e santi, che replicano l’atteggiamento del Cristo.

Il riconoscimento della scena nelle catacombe romane di San Sebastiano, per concludere, rappresenta un momento importante, direi incipitario per la lunga fortuna iconografica dell’evento solenne ed epocale dell’Ascensione, in un tempo e in un luogo, che rappresentano le coordinate di un evento artistico precoce, che funge da passaggio naturale tra l’arte funeraria e quella degli edifici di culto, tra quella di stampo augurale, concepita per le necropoli paleocristiane della prima ora, e quella narrativa dei grandi scenari decorativi, che interesserà i più prestigiosi edifici basilicali.

La scoperta della nuova e antica scena si è verificata per la sinergia degli iconografi, che mi hanno visto impegnato con Dimitri Cascianelli, dei restauratori, nella persona di Stella Cascioli, e dei restitutori grafici guidati da Luca Fabiani. Il monitoraggio è stato fortemente voluto dal presidente della Pontificia Commissione di archeologia sacra, cardinale Gianfranco Ravasi e dal segretario, monsignore Pasquale Iacobone.