Massimiliano Menichetti
Il 13 maggio del 1981 resterà per sempre la data dell’attentato a Giovanni Paolo II. Alle 17.17 Papa Wojtyła viene colpito da due proiettili sparati in Piazza San Pietro dalla pistola di Mehmet Ali Ağca. Il Santo Padre si accascia sulla jeep – tutt’intorno paura ed incredulità – immediatamente viene portato in guardia medica vaticana. Ad attenderlo il chirurgo, il prof. Enrico Fedele e Leonardo Porzia, l’infermiere che materialmente abbracciò il Papa per metterlo sulla lettiga. Porzia rimase con il Papa fino al ricovero al Policlinico Gemelli. Riproponiamo la sua testimonianza nell’intervista realizzata il 23 aprile del 2014:
Quel giorno ero di servizio in ambulatorio chirurgico: noi eravamo collegati con i vari presidi del Pronto Soccorso a San Pietro. A un certo punto arriva una comunicazione: “Hanno sparato al Papa! Sta entrando dall’Arco delle Campane per recarsi alla Guardia Medica!”. Subito avvertii il chirurgo, il prof. Fedele, era lui di servizio. Tutti quanti – anche altri medici – uscimmo in mezzo alla strada… Arrivò la jeep con il Santo Padre.
D. – Appena sentiste, via radio, che avevano ferito il Papa, come viveste quel momento?
Una cosa terribile! “Oddio, hanno sparato al Papa!”. Si mise in movimento tutto l’ambulatorio.
D. – Da chi fu soccorso subito, lì per lì?
Da me. Avevamo l’ambulanza accanto, tirai fuori la barella e lo abbracciai, lo portati al mio petto, così come stava sulla jeep, e lo misi sulla lettiga. Il chirurgo guardò la ferita: a seconda dell’entità del danno o si sarebbe portato all’ospedale Santo Spirito o al Policlinico Gemelli… Con un batuffolo di garza, tamponai la ferita del Papa.
D. – Quando da voi arrivò il Santo Padre, ci fu incertezza?
No, no! Fu una cosa diretta: lo presi e lo misi subito sulla barella!
D. – In realtà, per andare in ospedale, si aspettò l’arrivo di un’altra ambulanza vaticana, dove era?
Era incastrata sotto al colonnato. Si perse un po’ di tempo, ma arrivò anche l’ambulanza del Santo Padre e uscimmo.
D. – Perché ci fu la necessità di portarlo da una ambulanza ad un’altra?
Perché quella era più attrezzata.
D. – Saliste, chi eravate a quel punto sull’ambulanza?
C’era l’autista, il cameriere – Gugel -, il direttore sanitario Buzzonetti, il direttore del Fas – il servizio sanitario vaticano – il chirurgo ed io… Eravamo sei o sette. Uscimmo da Sant’Anna e andammo al Gemelli.
D. – Il Santo Padre come stava?
Era cosciente… però non parlò! No, non parlò! Lungo la strada pregava.
D. – Per un fraintendimento voi partiste senza scorta?
Non avevamo scorta! La polizia ci aspettava all’Arco delle Campane, ma noi siamo usciti da Sant’Anna.
D. – Quale tragitto avete fatto?
Uscimmo da Sant’Anna, Piazza Risorgimento, Medaglie d’Oro; lassù c’è Via Pereira e una strada di campagna, che portava al Gemelli… Arrivammo a metà strada di Via Pereira, muore la sirena… Smise di suonare! Ci prese un colpo, perché non avevamo scorta… Un poco con il clacson, un poco così, riuscimmo ad arrivare al Gemelli.
D. – Durante il trasporto, però, accade anche un’altra cosa: proprio mentre lei stava operando…
Mi diedero ordine di mettere una flebo, perché la pressione era scesa di parecchio… Mentre stavo per infilare l’ago, l’autista fece una sterzata e siamo andati a finire sul marciapiede. L’autista prese un senso unico e un altro veicolo ci stava venendo addosso.
D. – Lesionò il Santo Padre?
No, no, no! Io mi bucai un dito…
D. – Quanto ci mise l’autoambulanza ad arrivare al Gemelli?
Neanche un quarto d’ora.
D. – Comunque arrivaste. Ma anche lì altre piccole difficoltà…
C’era l’ordine che lo si doveva portare al Centro di Rianimazione. Probabilmente il direttore aveva già parlato con il Centro di Rianimazione: là era di servizio un medico del nostro servizio Vaticano, era direttore del Centro di rianimazione…. Arriviamo là e scarichiamo la barella, ma arriva un contrordine: “Bisogna andare al nono piano!”. Al nono piano c’era la camera operatoria… Allora che fai? Da solo, correndo come un matto la portai – erano circa cento metri – all’ascensore per arrivare al nono piano.
D. – In quei momenti il Papa che cosa faceva?
Niente. Stava rannicchiato sulla barella, sofferente…
D. – Lei ha avuto paura che il Papa potesse morire?
Sì, si!
D. – Arrivato al nono piano, lei lasciò Giovanni Paolo II?
Invece di entrare direttamente in sala operatoria, lo lasciai nella stanza dove si fa la preparazione del paziente… Gli ho levato tutti gli indumenti, li ho messi in un sacchetto di plastica e l’ho consegnato a Gugel. Il direttore mi disse: “Puoi rientrare!”.
D. – Il Papa verrà operato, poi un altro ricovero…. Comunque, in sostanza, gradatamente dopo la convalescenza a Castel Gandolfo, rientra in Vaticano. Lì continua degli accertamenti e in realtà lei continua ad incontrarlo quando viene a fare le analisi all’ambulatorio del Vaticano…
Quelle volte che veniva giù, mi diceva: “Io a lei la conosco!”. Lo disse 3-4 volte: “Io a lei la conosco!”. Io risposi: “Eh Santità, sì!”. Però non mi andava di dire: “Sono quello che…”.
D. – E lei non gli lo ha mai detto?
No! No!
D. – Personalmente come ha vissuto questo viaggio insieme al Papa in autoambulanza, quando lo ha poggiato sulla barella, quando lo ha rivisto in ambulatorio… ?
Finché non si è tornati alla normalità, per me era un paziente. La mia professione era quella! Poi certo …. Stavi operando sul Papa! Ma professionalmente ero sereno e tutto quello che c’era da fare si è fatto: diciamo che non si è trascurato niente.
D. – C’è anche un aneddoto singolare in relazione alla flebo che lei mise al Santo Padre…
Da noi lavoravano le suore polacche… Quando il giorno dopo, abbiamo ripreso il servizio, una suora polacca mi disse che Gugel gli aveva dato tutti i paramenti e anche la rimanenza della flebo… Questa flebo con il mio nome fu data a Via Cortina d’Ampezzo, dove c’è un istituto di suore polacche… Però onestamente io non ci sono mai andato…
D. – Il 24 dicembre dello stesso anno dell’attentato, quindi del 1981, lei ed il chirurgo foste ricevuti dal Papa… Dove?
Nell’anticamera della Sistina. E’ un salone… Prima io e i miei familiari; dopo il prof. Fedele con i suoi familiari.
D – Che cosa vi siete detti?
Devo dire onestamente, che non usciva niente… Non sapevo che dire! Lui ha ringraziato.
D. – Insomma, fu lui a parlare. Le conferì anche l’onorificenza di Cavaliere di San Silvestro. Che impressione le fece il Papa in tutta questa vicenda, da quando fu ferito a quando poi lo incontrò?
L’impressione di un uomo – diciamo – sofferente, ma contemporaneamente – guidato dal Signore – era un uomo che trasportava…
D. – Un uomo con la Grazia?
Con la Grazia, sì!
D. – Che effetto le ha fatto aver tenuto tra le braccia un Santo?
Eh, questa è una domanda milionaria! Mi sento orgoglioso – diciamo – di quello che ho fatto: ho preso in braccio il Papa! Sono riuscito a compiere il mio dovere e a fare tutto quello che era necessario.