Elvira Ragosta – Città del Vaticano
A cento giorni dal colpo di stato militare che ha deposto e arrestato la leader Aung San Suu Kyi, continuano le proteste, come la repressione dei militari. La giunta al potere ha dichiarato ‘gruppo terroristico’ il governo di unità nazionale e le altre organizzazioni che da settimane manifestano contro il golpe. Le stime ufficiali parlano di 769 cittadini ex birmani uccisi nelle proteste, organizzate spontaneamente nelle maggiori città e che hanno visto soprattutto la partecipazione di giovani, mentre sarebbero quasi 4000 le persone arrestate. Intanto, dal Myanmar giunge la notizia della sospensione di migliaia di accademici e altro personale universitario contrario alla giunta.
Un colpo di Stato non inaspettato
Nell’intervista a Vatican News, Stefano Caldirola, professore di Storia contemporanea dell’Asia, nota che da un certo punto di vista, il colpo di Stato, benché improvviso, non sia stato inaspettato, perché fin dalla democratizzazione, iniziata nel 2011 e proseguita gradualmente, i militari hanno sempre mantenuto un forte controllo sul potere politico, conservando un quarto dei seggi in Parlamento e il controllo di alcuni ministeri chiave. “Il tentativo di San Suu Kyi e della Lega nazionale della democrazia – prosegue – di limitare il ruolo dei militari ha fatto crescere questo scontro, per cui i militari sono intervenuti e hanno posto fine a quell’esperimento che è stata la democratizzazione della società birmana negli ultimi dieci anni”.
Il ruolo della Chiesa e gli appelli di Francesco
Numerosi sono stati gli appelli al dialogo e alla pacificazione da parte di Papa Francesco, che il 16 maggio prossimo presiederà, all’Altare della Cattedra in san Pietro, una messa per i fedeli del Myanmar a Roma. Alla pace e alla misericordia ha richiamato in queste settimane anche il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, mentre è divenuta l’immagine simbolo di questo tormentato momento per il Paese la foto di suor Ann Nu Thawng, della congregazione di San Francesco Saverio, che supplica in ginocchio i militari di non sparare sui giovani manifestanti. I birmani di religione cristiana rappresentano solo il 4 per cento della popolazione, ma “la Chiesa ha una grande influenza soprattutto morale – aggiunge il professore – perché ha sempre cercato di portare avanti dei tentativi di pacificazione, ha una lunga storia di tentativi di avvicinamento tra le diverse etnie e tra i diversi gruppi religiosi, pensiamo anche a quello che è avvenuto negli ultimi anni con la dure repressione dei Rohingya“.
Le minoranze etniche
Le proteste contro il golpe si sovrappongono a problemi etnici di lunga data nel Paese asiatico. Questo ha portato alcune minoranze etniche del Paese a schierarsi con la popolazione che scende in strada da settimane. In particolare i Karen e i Kachin. Il conflitto tra lo Stato centrale e i Karen, ricorda il docente, risale al 1949, subito dopo l’indipendenza: “In questo caso il colpo di Stato va a interferire su una serie di difficoltosi tentativi di trovare un accordo tra Stato e Karen, che aveva portato a un inedito cessate il fuoco nel 2015, che poi non è stato rispettato da entrambe le parti. Il problema Karen è estremamente complesso e questo colpo di Stato non facilita il processo di dialogo perché i militari sembrano ancora più intransigenti, rispetto al governo di San Suu Kyi, circa la possibilità di concedere ampie autonomie alla popolazione dei Karen. Similmente, i Kachin – conclude il professore – hanno mostrato in passato la volontà di un’autonomia sempre più forte e hanno delle milizie armate che si sono opposte, in diverse fasi della Storia recente del Paese, al governo centrale. Anche in questo caso il dialogo è sempre stato molto difficoltoso”.