Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
Non ci sono reliquie di quel che resta del corpo di Rosario Livatino, sull’altare della sua beatificazione, ma la camicia azzurra indossata dal “piccolo Davide” nel giorno dell’ultimo scontro con il “Golia” mafia, il 21 settembre 1990, sul viadotto Gasena della statale Caltanissetta-Agrigento. Una piccola camicia ingrigita dal sangue rappreso, per un magistrato, un giudice, di nemmeno 38 anni, alto un metro e sessanta, che ha usato la fede, per fermare la criminalità organizzata. Perché “il suo sangue diviene seme di cambiamento, trasformazione, rinascita”. L’immagine la offre a Vatican News il postulatore della causa di beatificazione, l’arcivescovo di Catanzaro-Squillace Vincenzo Bertolone, che nella celebrazione di questa domenica nella cattedrale di Agrigento, presenta la vita del beato Rosario Livatino ai 200 partecipanti, in rappresentanza dei vescovi siciliani, presbiteri, religiosi, fedeli, familiari e autorità.
Le foto di un volto “sereno”, di chi si è affidato a Dio
Sopra quel reperto, finora esposto solo nelle aule di giustizia, e che la Corte d’Assise di Caltanissetta ha concesso in “affidamento temporaneo” all’arcidiocesi di Agrigento, i suoi colleghi accorsi poco dopo l’allarme lanciato dal testimone Pietro Nava, videro il volto “sereno, pur se colpito da un proiettile, di una persona che in quel momento tragico e finale si è affidata a Dio, come faceva tutti i giorni andando a pregare prima di entrare in tribunale”. A descriverlo a Vatican News è Toni Mira, inviato speciale di Avvenire, autore del libro “Rosario Livatino. Il giudice giusto”, appena pubblicato dalle Edizioni San Paolo. Mira ha potuto vedere, allegate al referto dell’autopsia sul corpo del magistrato di Canicattì, due foto scattate poco dopo l’omicidio. Ed è rimasto impressionato “dalla serenità di quel giovanissimo volto”, di chi aveva affidato a Dio tutto il suo delicatissimo lavoro di magistrato, con la sigla “STD”, Sub Tutela Dei, con la quale apriva ogni giorno sulle sue famose agendine.
La veglia. Damiano: serve un cammino di liberazione dal male
Ieri sera, nella chiesa di san Domenico a Canicattì, la parrocchia della famiglia Livatino, frequentata anche da Rosario, l’arcivescovo coadiutore di Agrigento, monsignor Alessandro Damiano, ha presieduto la veglia in attesa della beatificazione, chiedendo a tutte le comunità della Diocesi di impegnarsi “a investire l’eredità di Rosario Livatino in vita nuova, in un cammino di liberazione dal dominio del male: quel male che si manifesta nelle logiche mafiose e affascina e seduce come il tentatore che avvicina Gesù nel deserto”. Ha definito il giovane giudice martire della giustizia, primo magistrato beato nella Chiesa cattolica, “profeta prima che martire” perché ha saputo leggere la storia con gli occhi di Dio.
Livatino modello di vita buona, animata da giustizia e carità
Monsignor Damiano ha poi citato il sacerdote canicattinese Domenico De Gregorio, che già nel 1982 definiva “perfetta mafia” il non compiere il proprio dovere, disprezzare il debole e chinarsi al potente, come pure calpestare il bisognoso o farsi “pagare per ciò che, in forza del tuo ufficio, sei obbligato a fare”. Da ultimo, ha ricordato le parole del cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, alla chiusura del processo diocesano di canonizzazione, il 3 ottobre 2018, che ha definito Livatino “simbolo di una società cristiana che si vuole opporre al male e decide di sconfiggerlo con una vita buona animata dalla giustizia e dalla carità”.
Bertolone: martire emblema dell’uomo guidato dalla fede
Oggi quindi la Chiesa indica Rosario Livatino come modello “a coloro che hanno fame e sete di giustizia” e riconosce il suo martirio “in odio alla fede”. Abbiamo chiesto al postulatore, l’arcivescovo Vincenzo Bertolone, di spiegarci come si è arrivati a questo riconoscimento.
R.- Il martirio cristiano richiede che la causa della morte sia la fede o la pratica di una virtù connessa con la fede. In odio alla fede: è un’espressione che comporta, non soltanto un’azione assassina, quale è quella compiuta dal commando che ha ucciso Rosario Livatino, ma anche la necessità di verificare se l’atto portato a compimento è accaduto per mera ritorsione, vendetta, o perché la persona eliminata era come l’emblema, quasi l’incarnazione, dell’uomo guidato dalla fede. Nel caso di Livatino, ideatori e mandanti volevano mettere a tacere per sempre un uomo e un magistrato che incarnava, nella sua professione, il suo ideale di fede e di giustizia. Le mafie hanno il culto del potere onnipotente e non tollerano un uomo di fede, che esse chiamano dispregiativamente un “bigotto” e uno “scimunito” che, invece, da uomo giusto, sa armonizzare le esigenze del Vangelo e le prescrizioni dei codici penali. Livatino era consapevole di rischiare la vita e per questo decide di non contrarre matrimonio e di non coinvolgere in un ipotetico agguato degli innocenti.
“Alla fine della vita, non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili”, ha detto il prossimo beato. In cosa Livatino è un testimone credibile per i cristiani di oggi?
R.- La frase da lei citata, piuttosto che una citazione testuale, mi sembra una buona sintesi delle tesi espresse da Livatino nella sua esistenza professionale e, soprattutto, nei suoi scritti, come le agende di alcuni anni e le due conferenze pubbliche. In ogni caso, la sua credibilità – molto odiata dai mafiosi, che avrebbero preferito un magistrato che “si facesse i fatti suoi” o fosse disponibile ad “aggiustare le sentenze” – diviene un esempio non solo per i cristiani, ma per tutte le persone di buona volontà, soprattutto se impegnate nel campo della giustizia e del diritto. Per Livatino, la persona e la sua dignità vanno al primo posto, anche se la persona ha commesso reati, e la pena giustamente inflitta dev’essere redentiva e non afflittiva. Fondamentale è per lui il rispetto per la morte e la sua dignità: anche se si è di fronte al cadavere di un criminale, osserva Livatino, “chi crede prega, chi non crede tace”.
“Dal ‘martirio a secco’ al martirio del sangue” è il titolo che lei ha scelto per il suo ultimo libro sul giudice Livatino. Cosa intende per “martirio a secco”, e come ha reagito Rosario?
R.- L’espressione “martirio a secco”, che ho ripreso nel sottotitolo del libro edito dalla Morcelliana, fu usata nell’Ottocento dal fondatore della mia Congregazione, il siciliano beato Giacomo Cusmano, che scrivendo ad una suora disse che “anche Girgenti è terra di missione e di martirio a secco”. In questo senso il territorio agrigentino diviene il territorio di missione di Rosario Livatino: avrebbe potuto scegliere altre sedi, ma non lo fa; avrebbe potuto mantenere un profilo basso e non intraprendere tante azioni requirenti, invece è il magistrato requirente più produttivo nel quinquennio 1984-1988; nell’ultimo anno di vita, sarebbe potuto passare alla sezione civile, certamente meno pericolosa, invece resta nel penale, pur sapendo che è un ambito difficilissimo; avrebbe potuto ricorrere a qualche forma di tutela e di scorta, ma non lo fa per evitare che degli innocenti passassero dei guai a causa sua. Tutto questo è martirio a secco, che poi diviene anche martirio di sangue, che Livatino offre, come ricaviamo dalle ultime parole, per la salvezza di quei “picciotti”, così li chiama, che lo hanno inseguito e stanno per sparare l’ultimo colpo con armi militari.
Come parlerebbe, in breve, di Rosario Livatino ad un giovane che non sa nulla della sua vita e della sua testimonianza?
R.- Anche un ragazzo poco più che ventenne può, se s’impegna e studia, superare un difficile concorso. E anche un giovane magistrato può contribuire al cambiamento di una terra asfissiata dalle mafie e dal sangue. Livatino, negli anni della seconda guerra di mafia, che versa ettolitri di sangue per eliminare avversari e imporre il proprio dominio sulla gente, è come il piccolo Davide che ha la fionda per fermare il gigante Golia: le mafie, pur con i propri assassini efferati, nulla possono di fronte alla morte di un giovane, il cui sangue diviene seme di cambiamento, trasformazione, rinascita. Rosario è un giovane come te in una terra difficile; è un giovane che ama e s’innamora dei suoi “angeli biondi”, ma rinuncia a stabilizzare i suoi affetti per non lasciare una vedova e dei figli orfani. Trasfigura il suo amore nella dedizione al lavoro e alla redenzione degli altri e della società.
Cosa cambia nella vita della Chiesa e della società siciliana e di tutte le terre dove ancora il fenomeno mafioso è più forte, con questa beatificazione?
R.- La beatificazione di Rosario Livatino ci ricorda che nel contrasto alle mafie, non si fa mai abbastanza e non solo da parte della Chiesa. Che la sola risposta repressiva non basta, perché occorre combattere le ingiustizie, favorire i diritti dei cittadini e creare opportunità di lavoro. Occorre lavorare tantissimo nella formazione dei ragazzi, dei giovani e degli adulti, partendo dalle scuole elementari. Livatino mostra che le mafie esistono e come la fede possa esprimersi nel servizio alla Chiesa, alla comunità civile, allo Stato ed alle sue leggi ed è un faro luminoso per chiunque intenda, con spirito evangelico, porre un freno all’incidenza sociale delle mafie. Aiutiamo le giovani generazioni ad avere coscienze rette e schiena dritta. Il cammino è iniziato con Giovanni Paolo II nel 1993, con Papa Benedetto nel 2010 a Palermo, con Papa Francesco a Cassano allo Ionio, e adesso con questa beatificazione. Continuarlo è l’impegno di tutti, senza mai abbassare la guardia.
Toni Mira: un beato ancora tutto da scoprire
Il libro realizzato da Toni Mira, già autore di pubblicazioni e inchieste sul fenomeno mafioso e sulle nuove ecomafie, che nel 2019 gli sono valse il “Premio Paolo Borsellino”, è frutto di un ampio lavoro di indagine e dell’ascolto di molti testimoni, colleghi, collaboratori nelle indagini e persone informate sui fatti. Un lavoro che però non ha soddisfatto del tutto la sua curiosità sulla figura di Rosario Livatino.
R.- Mi resta ancora la curiosità di conoscere di più il “piccolo giudice”, di riuscire a trovare qualche altra carta, soprattutto del suo lavoro, per poter poi eventualmente raccontarlo ancora. Ma più che altro la curiosità di conoscerlo ancora: non l’ho potuto conoscere di persona, ma piano piano è come se lo avessi conosciuto direttamente, e vorrei conoscerlo ancora di più. Mi rimane l’immagine di un servitore dello Stato di straordinario valore, di cui abbiamo capito il valore soltanto, ahimé, dopo la morte, mentre la mafia l’aveva capito benissimo. La mafia sa prima di noi chi è un pericolo per i propri affari e lo colpisce duramente, come ha fatto con Rosario Livatino e con tanti altri magistrati. Un servitore dello Stato che aveva quel di più, quel riuscire a coniugare la giustizia che lui scriveva sempre con la G maiuscola con la carità. Un magistrato preparatissimo, avanzatissimo, che applicava le ultimissime norme, come quelle in tema di sequestro dei beni ai mafiosi, o addirittura anticipava alcune norme che ancora non esistevano, come il voto di scambio o come il poter fare accertamenti bancari che portassero poi a scoprire la commistione tra economia e mafia e potere politico. In più aveva un grande rispetto per la persona: anche il più terrificante assassino, di più potente mafioso, per Livatino rimaneva una persona. A tal punto che quando entravano nel suo ufficio, lui si alzava e gli dava la mano: anche al mafioso. Al punto da andare a pregare sul cadavere di un mafioso ucciso nella terribile guerra di mafia che ci fu in quegli anni, di cui lui si occupò, più di 200 morti in pochissimi anni. Andava a pregare a all’obitorio sul cadavere di un mafioso, di fronte allo stupitissimo custode dell’obitorio che mai avrebbe pensato che un magistrato andasse lì a pregare. Oppure andare in una giornata di Ferragosto a portare il decreto di scarcerazione per una persona che doveva uscire dal carcere e all’agente penitenziario che gli diceva: “Ma dottore lei a Ferragosto viene qua?”, rispondeva: “Questa persona deve uscire, la libertà è la cosa più importante”. Ecco, questi sono gli elementi che lo hanno caratterizzato e che mi hanno colpito di più: un cristiano a tutto tondo, un uomo di fede, ma con una grande professionalità. Mandava in carcere, Livatino, non era un buonista. Se c’era bisogno di colpire duramente, colpita duramente, dal mafioso, all’assassino, fino al rappresentante del potere. Ma poi restava sempre il suo rapporto con l’uomo e questo lo faceva con grande riservatezza. Non abbiamo nessuna intervista di Livatino, pochissime foto. Non gli piaceva apparire, ma devo dire che le poche cose che ha scritto, ma soprattutto i suoi atti sono di un valore straordinario.
Cosa hai trovato in particolare, raccogliendo testimonianze e materiale su Livatino per il tuo libro?
R.- Ho avuto la fortuna di trovare un documento inedito, un’orazione funebre al funerale di un collega che lui apprezzava moltissimo. Lui parla del collega, ma in realtà parla di se stesso. Descrive quello che deve essere un magistrato, ed è un testo di un’attualità straordinaria, se pensiamo in questi giorni in cui la magistratura è in mezzo a un gran polverone e ha perso moltissima credibilità nei confronti dei cittadini. Ecco, lui diceva: “Che impressione diamo noi hai cittadini, che impressione vogliamo dare?”. Già allora, c’erano dei problemi anche dei rapporti tra magistratura, politica e cittadini e lui ne era cosciente: già lo diceva, e stiamo parlando del 1983, sembra scritto oggi. E un’altra cosa che mi ha molto colpito è l’aver visto le foto di Rosario Livatino in quella scarpata dove lui cercò di fuggire dai killer, le due foto allegate all’autopsia. Sono immagini struggenti, ma che mi hanno confermato quello che mi hanno detto i magistrati che sono scesi anche loro in quella scarpata, seguendo le tracce del sangue di Livatino, fino a trovare il piccolo corpo del piccolo giudice. Il suo volto, pur colpito da un proiettile, non è devastato. E’ un volto sereno, come se Rosario Livatino fosse pronto a questo momento. Lui si era preparato, lo sapeva, non aveva voluto la scorta perché non voleva che altri potessero pagare al posto suo con la vita. Temeva soltanto ovviamente di lasciare soli i genitori, ma lo sapeva che era veramente a rischio. L’immagine di quel volto sereno, di una giovanissima persona, ancora più giovane di quella che era a 37 anni, è un’immagine di serenità che non riesco a dimenticare. E rappresenta davvero una persona che in quel momento si è affidata a Dio, come faceva tutti i giorni andando a pregare prima di raggiungere il tribunale e di fare il suo difficilissimo lavoro, e che aveva affidato a Dio il suo lavoro. Con quell’ STD, “Sub Tutela Dei” che lui scriveva tutti i giorni nelle sue agende. In quel momento lui si è affidato da Dio e quell’immagine di serenità per me la rappresenta pienamente.
Nel discorso inedito al funerale dell’amico magistrato, lui sottolinea la differenza tra essere operatori di diritto e Operatori di Giustizia: quelli di giustizia sono quelli che sanno andare al di là della legge, cioè quello che la legge magari non dice, loro cercano di applicarlo per giustizia. E’ importante questo anche oggi?
R.- Assolutamente sì, perché in un momento in cui sentiamo sempre di più il richiamo al tintinnare delle manette, è fondamentale questo suo mantenere assieme giustizia e carità, giustizia e rispetto delle persone, che poi è quello che è il diritto, come ricorda la nostra grande Costituzione. Ricordiamo che Livatino teneva sulla scrivania il Vangelo e la Costituzione, e aveva chiarissimo che ci fosse uno stretto rapporto tra i due. La nostra Costituzione dice che c’è sempre una possibilità, per tutte le persone, di poter riscattare la propria vita.
Invece nel discorso già noto, quello su fede e diritto del 1986, Livatino diceva che “Il rendere giustizia è preghiera e dedizione a Dio. Compito del magistrato è decidere, quindi scegliere”. Possiamo dire che in questo operava un discernimento, sotto lo sguardo e la guida di Dio, nella preghiera e nella lettura del Vangelo, e anche per questo è beato?
R.- Certo, lui parla di scegliere: sono state tante le scelte di Rosario Livatino. La scelta di restare nel suo paese, di restare con suoi genitori, la scelta di fare il magistrato quando con le sue capacità, di cultura e di preparazione, avrebbe potuto fare altri lavori sicuramente più remunerativi. La scelta di fare delle inchieste che probabilmente altri non avrebbero fatto, la scelta comunque di mantenere quelle porte aperte nei confronti delle altre persone, e poi la scelta di Dio, è evidente. E i mafiosi lo avevano capito, chiamandolo “santocchio”, perché sapevano che andava tutti i giorni a pregare, a tal punto che avevano progettato inizialmente di ucciderlo fuori dalla chiesa. Avevano capito che Livatino aveva un qualcosa in più, oltre a quello che avevano tanti altri suoi colleghi magistrati. Ed è quello che i suoi colleghi, quando ho chiesto un ricordo di Livatino, mi dicono sempre. Questo di più che aveva Livatino rispetto alla qualità di un bravo magistrato.
Ed è per fede, secondo te, che si è sacrificato al posto di colleghi con moglie e figli chiedendo di occuparsi lui delle inchieste più rischiose?
R.- Anche questa è un’altra scelta. Ovviamente lui ha di fronte l’immagine del crocifisso. Non trovò il crocifisso nel suo ufficio e tramite un suo amico sacerdote, lo fece chiedere all’arcivescovo che gli fece avere un crocifisso da mettere nel suo ufficio. E l’immagine del crocifisso è immagine del martirio, verso il quale lui sa che sta andando. Lo scrive, chiaramente, anche nelle sue agende, lo accetta, non lo allontana, sa che questo sicuramente provocherà un grande dolore nei suoi anziani genitori che lui adorava e che proteggeva in tutti i modi, ma va fino in fondo.
E dove vive oggi Rosario Livatino, la sua testimonianza, come scrive anche don Ciotti nella prefazione del tuo libro? La Sicilia è cambiata e sta cambiando, grazie al suo sacrificio?
R.- Io spero di sì. Devo dire che rispetto ad altre vittime innocenti delle mafie, Livatino non è stato conosciuto fino in fondo. Proprio in quanto non era un personaggio pubblico, rispetto ad altri. Però ogni volta che lo si riesce a far conoscere, le persone scoprono una persona normale. Non è un supereroe, ma dimostra che è possibile farlo, se lo si fa insieme. Aveva l’idea che si dovesse fare assieme: inventò i gruppi misti della polizia, fu tra i primi a lavorare insieme con il pool di Palermo di Falcone e Borsellino, perché contro le mafie vince non solo il “No”, ma anche il “Noi”.
Forse a questa beatificazione non si sarebbe mai arrivati senza il coraggio di Pietro Ivano Nava, il testimone che ha riconosciuto i killer e che per questo ha perso tutto: il nome, la famiglia, il lavoro. Eppure lo rifarebbe. Anche questa è una testimonianza da ricordare, oggi?
R.- Assolutamente sì, ed è uno di quegli strani eventi, forse potremmo dire dei segni del destino, di come in quel luogo ci siano state delle coincidenze straordinarie. Poteva passare un altro, o non passare nessuno. Passa Pietro Nava, che ha una capacità straordinaria di osservazione, di memoria e non soltanto ha la coscienza straordinaria di andare subito a denunciare quello che ha visto, ma lo descrive in un modo talmente particolareggiato da far individuare immediatamente i due killer. Il fatto che lui, pur cosciente, perché lo capì dopo poche ore, che la vita gli sarebbe stata completamente stravolta, glielo dissero chiaramente i poliziotti, malgrado questo lui continua a ripetere che lo rifarebbe ancora. Perché è quello che andava fatto in quel momento. Per me è già un piccolo, primo miracolo di Rosario Livatino. Ma ci sono tante altre coincidenze, tanti altri colleghi che, incrociando Livatino, dicono che la vita gli è stata cambiata. Il primo, sicuramente, è Pietro Nava: un banalissimo agente di commercio che diventa in quel momento quello che noi definiamo un eroe, ma che è semplicemente la normalità di chi fa qualcosa che andava fatto in quel momento.