L’Osservatore Romano
Organizzata dall’ambasciata d’Ungheria presso la Santa Sede, dal Pontificio istituto ecclesiastico ungherese, dalla Fondazione di Santo Stefano d’Ungheria, dal Pontificio collegio germanico-ungarico e dalla comunità degli ungheresi residenti a Roma, la celebrazione si è svolta nella chiesa di Santo Stefano al Monte Celio, a Roma, di cui Mindszenty fu cardinale titolare.
Rievocandone la “figura coraggiosa, onesta e vera”, che “la repressione e la persecuzione non annientarono”, il sotto-segretario della Sezione migranti e rifugiati del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale ha rimarcato le “sfide analoghe” che “dobbiamo affrontare oggi: “vi sono molti regimi che mostrano tendenze totalitarie – ha denunciato – e sopprimono le libertà. Milioni di persone cercano rifugio dalla guerra, dalla povertà e dal degrado ambientale, mentre le voci che si alzano per invocare dignità e libertà vengono zittite con fredda violenza”. Ma, ha assicurato, davanti alle “disuguaglianze e divisioni” che “persistono nella società, l’odierno successore di san Pietro invita il mondo a resistere alla tentazione naturale di difendere il proprio ‘noi’ e ad aspirare, invece, a un noi sempre più grande”, ha aggiunto citando il tema del messaggio di Papa Francesco per la prossima Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che lo stesso cardinale Czerny aveva presentato alla stampa in mattinata.
Un’esperienza, quella della migrazione, che il porporato gesuita ha vissuto sulla propria pelle e che ha ricordato nell’omelia: “Nel 1948, i miei genitori, mio fratello minore e io fuggimmo dalla Cecoslovacchia in Canada”. Nella nazione nordamericana, ha raccontato, “i nostri contatti furono principalmente con altri rifugiati del secondo dopoguerra provenienti dai Paesi devastati dell’Europa”. E, ha aggiunto, “il passato traumatico vissuto ci accompagnò nel nuovo mondo, definendoci, a volte, sulla scorta delle paure che avevamo”, al punto che — ha spiegato a titolo di esempio — “i miei genitori mangiavano in maniera eccessiva, perché temevano che un altro disastro potesse far rivivere loro la fame”. Si viveva in un clima di “paura palpabile. La gente costruiva rifugi antiaerei negli scantinati e li riforniva di provviste nel caso scoppiasse una guerra nucleare. Tuttavia, gli anni Cinquanta segnarono un periodo di ripresa economica per l’Occidente” e “si percepivano segnali che facevano sperare perfino in una nuova libertà nei Paesi del blocco comunista, una fiamma gloriosa e promettente che arse per alcune settimane durante la rivoluzione ungherese dell’ottobre 1956”, che ebbe tra i protagonisti proprio il cardinale Mindszenty, di cui Papa Bergoglio ha riconosciuto le virtù eroiche dichiarandone la venerabilità nel febbraio 2019.
“Forte – ha spiegato Czerny – fu l’impatto che questo avvenimento ebbe sul mondo intero. A casa nostra visse per sei mesi un rifugiato ungherese, ‘Buba’. Il ragazzino di dieci anni che ero, rimase colpito dal coraggio dei rivoluzionari. Ero inorridito dalla crudeltà con cui fu attuata la repressione”. Lo stesso primate d’Ungheria “era stato condannato all’ergastolo nel 1949, per poi essere liberato e, in seguito, quando l’auspicato sostegno dall’esterno non arrivò”, fu “costretto a rifugiarsi presso l’ambasciata degli Stati Uniti”. Eppure, ha concluso il celebrante, il cardinale Mindszenty “non si preoccupò delle minacce, ma attinse alla sua forza interiore umana, culturale e spirituale per restare libero, fedele alla sua chiamata e alla sua missione, per continuare a crescere e a evangelizzare”.