Marco Guerra – Città del Vaticano
“La rivoluzione globale della primavera del Myanmar”, questo il nome che i manifestati hanno dato alla imponente mobilitazione di domenica coordinata con le comunità birmane in tutto il mondo. Migliaia di persone hanno sfilato per le strade della capitale economica Rangoon e nella regione di Mandalay.
Le ultime manifestazioni
Da settimane non si vedevano manifestazioni così partecipate in tutto il Paese del sud-est asiatico e la risposta della giunta militare è stata altrettanto energica. Le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sui cortei, provocando almeno 8 morti, numeri non confermati dalla giunta golpista. Secondo i gruppi di assistenza per i prigionieri politici, sono 765 i manifestanti uccisi dall’inizio del colpo di Stato, avvenuto il 1° febbraio scorso, che ha destituito il governo eletto guidato dal premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, vincitrice delle elezioni del novembre scorso con il suo partito, la Lega Nazionale della Democrazia (LND).
Il conflitto con le minoranze etniche
E, con i militari al potere, si registra anche l’intensificarsi dei combattimenti con le milizie delle minoranze etniche nelle remote regioni di frontiera del nord e dell’est. Questa mattina, l’Esercito dell’Indipendenza Kachin (KIA), uno dei più potenti gruppi ribelli, ha comunicato di aver abbattuto un elicottero in risposta agli attacchi aerei militari sulle sue postazioni. Testimoni riferiscono anche di quattro persone morte a causa dei colpi di artiglieria caduti su un villaggio. Tra l’altro, in queste ultime settimane, strutture militari sono state attaccate con razzi e ordigni artigianali. Le Nazioni Unite stimano che questi scontri abbiano provocato la fuga di decine di migliaia di civili dalle loro case. L’instabilità, le proteste e la repressione hanno paralizzato l’economia e, secondo l’Onu, 25 milioni di persone sono ora a rischio povertà.
Gabusi: asse tra opposizione e milizie etniche
“A tre mesi dal colpo di Stato è evidente che l’operazione dei militari non è andata come si aspettava la giunta. I golpisti hanno sottovalutato che in questi ultimi 10 anni il Paese ha sperimentato maggiori forme di libertà a cui non vuole rinunciare e che hanno accresciuto nella società il potere di resistenza alle forze armate”, spiega Giuseppe Gabusi, docente di politica economica dell’Asia orientale all’Università degli Studi di Torino. L’esperto dell’area riferisce che gli esponenti della classe politica, che non sono stati incarcerati, si sono organizzati e attorno a loro si sono riuniti i sindacati e i movimenti giovanili: “Hanno creato un comitato – spiega Gabusi, che a sua volta ha formato un governo parallelo. Questo organismo ha redatto una proposta di costituzione nuova, che guarda anche al rapporto con le milizie etniche in guerra con il governo centrale”.
Rischio guerra civile
Gabusi ricorda che le forze armate del Myanmar contano 400mila soldati contro i 60mila miliziani dei gruppi etnici: “Le milizie dei ribelli trovano maggiore spazio in questo periodo, perché l’esercito è impegnato anche a sedare le proteste nelle città. E’ per questo che quello che succede in periferia è fondamentale per la politica del Paese. Ovvero, senza una nuova forma di patto politico tra il centro e le periferie, le forze armate si sentiranno depositarie dell’unità nazionale, per giustificare il loro intervento. Tuttavia, anche i Paesi vicini si stanno rendendo conto che i militari stanno portando ad una maggiore instabilità e al rischio che il Myanmar vada in mille pezzi e scivoli verso una guerra civile”.