A Roma, il Santuario della Croce di Cristo

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Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano

La facciata della basilica, opera degli architetti Gregorini e Passalacqua, realizzata durante il pontificato di Benedetto XIV (1740-1758), sembra uno scrigno, come a voler anticipare la custodia delle preziosissime reliquie portate a Roma da Elena, madre di Costantino, dalla Terra Santa. Sulla sommità della chiesa, le statue degli Apostoli, Costantino ed Elena si dispongono lungo la curva spezzata che converge verso il centro, dove due angeli adorano la Croce.

La storia del ritrovamento delle reliquie della Passione fu così memorabile da rappresentare uno dei capitoli più celebri della medioevale Legenda Aurea di Jacopo da Varazze e godere di grande fortuna nell’arte. Lo testimoniano i meravigliosi affreschi di Agnolo Gaddi nella basilica di Santa Croce a Firenze (1380-90) e di Piero della Francesca nella basilica di San Francesco ad Arezzo (1452-66). Anche nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme di Roma, sono rappresentate le storie della vera Croce negli affreschi dell’abside eseguiti da Antoniazzo Romano e Marco Palmezzano tra il 1492 e il 1495.

Il viaggio di sant’Elena

Dopo la vittoria al ponte Milvio del 312 d.C., nel segno della Croce che apparve a Costantino – allora in guerra con Massenzio – nel cielo insieme alla scritta in greco ἐν τούτῳ νίκα, tradotto in latino in hoc signo vinces,  “sotto questo segno vincerai”,  l’imperatore incoraggiò la madre a compiere un viaggio in Terra Santa alla ricerca dei luoghi dove si era compiuta la passione, morte e risurrezione di nostro Signore. Elena si recò in Palestina tra il 326 e il 328.  Con vari stratagemmi, come afferma la tradizione, riuscì a farsi indicare il sepolcro e a trovare tre croci. Ma qual era quella autentica? Provò a toccare con i tre legni un defunto e solo con uno di essi il corpo inerte prese di nuovo vita. La croce di Cristo era stata identificata, le altre due erano il patibolo dei due ladroni. La croce fu divisa in tre: la parte più grande rimase a Gerusalemme, una fu donata a Costantino che la portò nella nuova capitale, Costantinopoli –  l’odierna Istanbul – e la terza fu destinata a Roma.

Gerusalemme a Roma

Elena tornò a Roma portando non solo reliquie, ma anche della terra scavata nei luoghi santi. Su questa fece edificare una cappella all’interno della sua villa. Nessun rifacimento successivo ha intaccato gli strati sacri. Non a caso il toponimo, ovvero il nome del luogo, è fin dall’epoca medioevale semplicemente Hierusalem: un lembo di Gerusalemme a Roma, dove pellegrini e fedeli si recavano e si recano tuttora. Santuario della Croce di Cristo, la definì san Giovanni Paolo II, in visita nella stazione quaresimale nella quarta domenica di Quaresima del 1979.

Il titulus Crucis, I.N.R.I.

Tra le reliquie c’è una tavoletta in legno di noce, scoperta il 1° febbraio 1492 custodita all’interno di un astuccio in piombo con i tre sigilli del cardinale Gerardo Caccianemici – futuro Papa Lucio II (1144-1145) – murata nel colmo dell’arco trionfale della chiesa. Su di essa un’iscrizione in tre lingue, ebraico, greco e latino. È  il titulus crucisIesus Nazarenus Rex Iudaeorum, “Gesù Nazareno re dei giudei”, l’iscrizione posta sulla croce di Cristo, ricordata da tutti i Vangeli (Mc 15,26; Lc 23,38; Mt 27,37; Gv 19,19-20) e che noi conosciamo anche dalla sigla I.N.R.I.

Giovanni, in particolare, descrive che Pilato fece scrivere, secondo le norme di diritto romano, la motivazione della condanna di Cristo, accusato di proclamarsi Re dei giudei. L’iscrizione, come si è detto, è in tre lingue, riservando a Cristo un “trattamento speciale”, di certo non comune, soprattutto voluto da un dignitario e cittadino romano. Le tre lingue erano usate solo su iscrizioni solenni e furono usate per umiliare il Signore, insieme  alla corona di spine e alla canna usata come scettro.

Gli studi sull’iscrizione

Sull’autenticità o meno della tavoletta si è sviluppato un appassionato dibattito che da una parte nega l’autenticità del reperto attraverso i risultati dell’analisi del radiocarbonio, eseguita nel 2002 – che situa la cronologia in un’epoca tarda, tra  X e XII secolo – dall’altra, converge  nel ritenerla vera o per lo meno copia fedele di epoca contemporanea alla morte del Signore, sulla base di alcune evidenze, come i caratteri paleografici riconducibili al I sec. d.C.

Alcune discordanze, come la non esatta corrispondenza con le parole riportate dai Vangeli ne evidenzierebbe una scrittura di “prima mano” e l’evidenza di Nazarinus anziché Nazarenus del latino sarebbe un errore che un falsario non avrebbe commesso. I sostenitori dell’autenticità del titulus contestano anche come l’analisi del C14 debba obbedire a una serie di condizioni non rispettate per la tavoletta che riporta anche le tracce biologiche dei tantissimi pellegrini che l’hanno toccata e baciata, al punto da consumare parte dell’iscrizione.

Le testimonianze letterarie più antiche

Dobbiamo giungere agli ultimi decenni del IV secolo per trovare la prima testimonianza del titulus. L’Itinerario di Egeria è il primo che afferma di averlo visto insieme alla croce, esposto all’adorazione dei pellegrini, durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa nel 383 (Itinerarium Egeriae 37,1) e ancora, nel 570, Antonino da Piacenza che ne riporta anche il testo, simile a quello di Matteo nei Vangeli, (Itinerarium, Corpus Christianorum, S. Latina, 175, 130). Questo potrebbe voler dire che la reliquia giunse a Roma in un momento successivo al viaggio di Elena.

Alcuni studiosi ritengono tra l’altro che non sia integra, ma porzione di un’iscrizione più lunga e che appunto una parte sia rimasta a Gerusalemme insieme a parte della croce, in seguito disperse. Ipotesi invece contraddetta da alcuni studiosi che ritengono quella romana integra e compiuta di senso.

La polemica 

Un dibattito generale sull’autenticità delle reliquie e il conseguente scetticismo partono da tempi lontani, ad esempio ne parla in modo sferzante già Boccaccio in una sua novella del Decamerone. Il teologo francese Jehan Cauvin (Giovanni Calvino), che con Lutero fu il massimo riformatore religioso del cristianesimo protestante europeo degli anni venti e trenta del Cinquecento, ne fece uno dei perni della sua polemica anticattolica. Ritenendo che il culto delle reliquie fosse pura superstizione, osservava: “Se tutti i pezzi rintracciabili [della croce] fossero radunati insieme, formerebbero un bel carico per una nave, benché l’Evangelo affermi che una sola persona fu in grado di portarla. Che sfrontatezza, quindi, riempire tutto il mondo di frammenti che richiederebbero più di trecento uomini per trasportarli!”

Di rimando, nelle Memorie sugli strumenti della passione, Rohalt de Fleury faceva notare, dopo un capillare lavoro di catalogazione di tutti i frammenti conosciuti della Vera Croce, che il loro volume complessivo era pari a un cubo di 16 cm di lato, cioè 0,17 metri cubi di una croce intera di quasi 4 kg, nel caso fosse stata del legno più pesante, l’olivo. A questo bisognerebbe aggiungere che la croce di Cristo era alta e visibile, sublime, quindi doveva avere un peso anche maggiore, come si evince da alcuni passi dei Vangeli, perché quando Cristo gridò di avere sete, il soldato gli bagnò le labbra con una spugna inzuppata di posca, la bevanda dei militari romani, mistura di acqua e aceto, fissata in cima a una canna (Mc 15,36; Gv 19,28-29).

Il significato delle reliquie

Va anche detto, per concludere un argomento così ampio e non trattato qui in modo di certo esaustivo, che quando si sviluppò il culto delle reliquie non era l’oggetto in sé ad essere importante né la sua integrità. Bastava un frammento o un oggetto venuto a contatto con esso per trasmetterne tutta intera la sacralità. Non è mai stato un culto legato all’evidenza storica della materia, ma sacro perché testimonianza viva della Persona di Cristo realmente incarnata. Ed ecco perché la Croce fu divisa, e insieme ai chiodi e alle spine della corona si trovano in molti luoghi. Stessa sorte per i resti mortali dei Santi martiri. 

Le origini della Basilica

Santa Croce in Gerusalemme sorge in una zona che in epoca antica era residenza imperiale. Annessi al complesso vi erano anche un circo, delle terme  e un anfiteatro – detto castrense – il cui muro circolare è visibile arrivando dalla Basilica di San Giovanni. Con la costruzione delle Mura Aureliane, nel 272, parte delle costruzioni furono inglobate dal circuito delle fortificazioni. 

Da proprietà dei Severi, pervenne a Costantino e quindi a Elena con il nome di palatium Sessorium o Sessorianum, nel 324, anno in cui la capitale dell’Impero fu trasferita a Costantinopoli. Nel Liber pontificalis si parla della fondazione della basilica ad opera di Costantino, intorno all’anno 360. Una grande aula rettangolare fu trasformata in basilica con l’intenzione di accogliere le reliquie portate dalla Terra Santa.
Da allora quel luogo divenne meta di grande devozione. Nel Venerdì santo i  papi percorrevano a piedi scalzi il tragitto che dal Laterano, sede allora della loro residenza, giunge qui, per adorare le sante memorie.
Papa Gregorio Magno la istituì titolo cardinalizio nel 523.

La Cappella delle reliquie

Le reliquie fino al 1930 erano custodite nella cappella sotterranea di sant’Elena che subì molti restauri e rifacimenti con il concorso di grandi artisti come Baldassarre Peruzzi, Giuliano da Sangallo, il Pomarancio e Rubens. Una statua romana  di Giunone, proveniente da Ostia antica è stata riadattata in quella di Elena. La cappella era considerata sacra al pari del Sanctorum di San Giovanni al Laterano. La terra del Calvario era distesa proprio qui.

La difficile accessibilità alla cappella e l’umidità dell’ambiente costrinsero a cercare un’altra collocazione per le reliquie. La cappella alla quale accediamo oggi è stata ricavata dalla sacrestia, in fondo alla navata sinistra, progettata da Florestano Di Fausto. Inaugurata nel 1930 e ultimata nel 1952, crea un percorso scandito dalle tappe della passione che culmina di fronte ai tre frammenti della Croce, il titulus, un chiodo e parte della corona di spine, oltre ad altre reliquie minori aggiunte in tempi successivi. 

La Basilica

Entrati nell’atrio a pianta ellittica, e poi nella chiesa, percepiamo subito la stratificazione di stili: su una base di impronta medioevale si sono susseguiti interventi di restauro e rifacimenti lasciando ciascuno l’impronta del proprio tempo. All’essenzialità del periodo paleocristiano segue l’adattamento a tre navate di epoca medioevale e quindi le decorazioni barocche. L’atrio bianco lascia risaltare ancora di più l’azzurro intenso e l’oro degli affreschi dell’abside, contro cui si staglia il tabernacolo in bronzo – opera del Maderno – sotto cui un sarcofago di basalto custodisce le reliquie di san Cesareo di Terracina e di sant’Anastasio.

San Cesareo da Terracina

La tradizione ritiene che san Cesareo, orginario del Nord Africa e vissuto tra I e II secolo, appartenesse alla gens Iulia, una delle discendenze romane più importanti, risalente ad Ascanio, figlio di Enea, passando per Romolo e quindi a Giulio Cesare. Il suo culto, diffusissimo, riveste un significato fondamentale nel passaggio dal paganesimo al cristianesimo oltre che essere il santo tutelare degli imperatori. Cesareo eredita e trasforma in chiave cristiana quello che prima era il culto riservato ai Divi Cesari, agli imperatori.  

Il crocifisso della Basilica

Lungo la navata sinistra vi è un bellissimo e sofferto Cristo crocifisso, opera di un anonimo romano del XVI. Sebbene di una cronologia posteriore, non sarà difficile scorgere l’ispirazione derivante dal celebre e amatissimo Crocifisso miracoloso di San Marcello al Corso. 

L’uomo della Sindone

Profondamente diverso e teso a rappresentare le reazioni posturali e fisiologiche del Signore durante l’agonia sulla croce, sollecitato anche dal peso del suo corpo, trattenuto al legno solo mediante i chiodi, è il moderno crocifisso che possiamo vedere nella Cappella delle reliquie, realizzato da monsignor Giulio Ricci. Un particolare importante è che i chiodi non trafiggono le mani ma sono piantati nella linea di flessione dei polsi: solo così la forza di gravità non avrebbe staccato il condannato dal patibolo. In questo crocifisso è evidente la volontà di rappresentare Cristo in modo quanto più realistico possibile, in perfetto accordo ai segni riscontrati sulla Sacra Sindone, la cui copia perfetta si trova anche in questa basilica, in una stanza in fondo a destra della Cappella delle reliquie.
La pratica di crocifiggere con i chiodi è ben attestata dalle fonti latine, come Plauto e Seneca, ma in particolare è testimoniata in un’iscrizione da Pozzuoli pubblicata nel 1967. Queste evidenze fugano ogni dubbio e danno ragione ai Vangeli che parlano esplicitamente di inchiodamento sulla croce di Gesù e non legato con le corde, come è stato ipotizzato. 

Al Settecento risalgono i dipinti su tela del soffitto, opera di Corrado Giaquinto, esponente tra i più celebri del Rococò, con la figurazione dell’apoteosi di Elena, del 1744.

Dietro l’altare maggiore vi è la tomba del cardinale Enrique de Quiñones, opera di Jacopo Sansovino tra il 1536 e il 1540.

Nennolina, il lampo splendido di una vita

Sembra impossibile immaginare quanto dolore ci sia stato dietro quegli occhioni neri e vivaci. Nennolina viveva poco lontano da Santa Croce in Gerusalemme.
Antonietta de Meo, questo il suo nome all’anagrafe, era una bambina come tante, vivace e allegra ma fin da piccolissima manifestò una sapienza e una capacità di comprendere Dio difficile a spiegarsi. 

Le sue letterine, dettate alla mamma in età prescolare e poi scritte di suo pugno, traboccano di amore per Gesù e di una profondità spirituale davvero straordinari. La sua precocità si espresse in ogni atto della sua vita al punto da essere ammessa anzitempo alla Prima Comunione. A quattro anni faceva parte dell’Azione cattolica. Colpita da un tumore osseo, subì l’amputazione della gamba, Visse il suo ultimo anno e mezzo di vita senza mai perdere la gioia e l’allegria.

In una cappella a sinistra, prima di accedere al percorso verso quella delle reliquie, riposano le spoglie mortali di Nennolina insieme agli oggetti che hanno accompagnato la sua vita: giocattoli, quaderni, le scarpette, il cappellino e un vestitino. Nelle vetrine sono esposte anche alcune delle sue letterine, vergate con la scrittura inconfondibile dei bambini che stanno imparando. Fermarsi a salutarla con una preghiera  ci riempie di tenerezza e ci ricorda che sono i piccoli quelli più amati dal Signore. Nata nel 1930, è morta nel 1937, è stata proclamata venerabile dalla Chiesa cattolica nel 2007.