Antonella Palermo – Città del Vaticano
Scelse l’umanità al posto del nazionalismo. Jovo Divjak, colonnello dell’armata popolare jugoslava, poi generale, è morto l’8 aprile scorso, all’età di 84 anni, dopo una vita spesa a difendere la città di Sarajevo durante l’infinito assedio iniziato 29 anni fa. Diventato simbolo di resistenza alla distruzione della Bosnia Erzegovina multietnica, diceva: “Era mio dovere, morale e personale”.
Il coraggio di schierarsi a favore dell’unità
Di origine serba, Divjak non esitò a schierarsi subito dalla parte bosniaca, diventando il numero due dell’Armija di Sarajevo. “Queste sono le persone con cui vivo, i miei vicini di casa, non farò la guerra contro di loro”, proclamò. Ricordiamo che quello di Sarajevo sarebbe passato alla storia come l’assedio più lungo di una capitale in epoca moderna (1425 giorni) con un bilancio di quasi 14mila morti, tra cui circa 5.500 civili, inclusi moltissimi bambini. Rifiutò sempre di farsi strumentalizzare, rinunciando a potere, soldi, successo, fedele fino alla fine ai propri ideali. Di famiglia cristiano ortodossa, denunciò i crimini di certi capibanda del partito etnico bosniaco-musulmano, valorizzò peraltro il ruolo delle donne, tanto che amava ripetere: “Sono le donne che hanno salvato Sarajevo”. Assistette allo sterminio di Srebrenica. Nel 2011 il governo di Belgrado fece emettere un mandato di cattura internazionale contro di lui per presunti crimini di guerra. Visse quattro mesi di prigionia, l’accusa si sarebbe poi rivelata infondata.
L’associazione “L’educazione costruisce la Bosnia”
Percorreva le trincee, incoraggiava i soldati, tranquillizzava i feriti, abbracciava i genitori che avevano perso i loro figli, si procurava le medicine che mancavano alla città assediata, protestava contro i maltrattamenti perpetrati sulla base della nazionalità delle persone. Umile di carattere, si preoccupava che il suo ruolo non creasse mai disagio per gli altri. Era una persona che infondeva un autentico senso di sicurezza. Personaggio eclettico, tra i suoi sogni c’era quello di fare il pedagogo, così come lo psicologo: avrebbe voluto indagare su cosa muove taluni ad uccidere. Era un intellettuale, appassionato di teatro, balletto, poesia. Fondò l’associazione Ogbh per accogliere orfani, bambini poveri, dedicandosi moltissimo dal 1994 a quest’opera di solidarietà. Oltre 50mila persone, figli di veterani, famiglie povere e rom, hanno ottenuto borse di studio per proseguire la formazione, anche nelle zone di campagna più colpite dalla guerra.
La gente bosniaca lo ricorda come un eroe. Sarajevo non lo ha mai dimenticato, tanto che lo ha sempre chiamato ‘Zio Jovan’, come emerge dalla testimonianza di padre Francesco Radman ofm, docente al Seminario di Sarajevo, presidente della Commissione Giustizia e Pace della Provincia francescana della Bosnia argentina:
R. – Tutti a Sarajevo siamo tristi. Era una persona veramente piena di energia. A distanza di trent’anni dall’inizio della guerra, ancora sentiamo echeggiare le sue parole: “Non sparate”. Fu un generale importante che durante la brutta e sanguinosa guerra voleva salvare Sarajevo e la Bosnia come paese multietnico. E’ diventato un simbolo di pace. Noi, pochi purtroppo, non inquinati dall’ideologia nazionalista, vogliamo salvare la sua memoria e il suo messaggio come esempio di un potenziamento della pace che è possibile nella regione dell’ex Jugoslavia. Rimarrà come un eroe, una figura che si può seguire, imitare, anche oggi.
Come continua l’opera dell’associazione da lui fondata?
R. – Era una idea condivisa anche da altre organizzazioni non governative. Tutti gli orfani hanno gli stessi dolori e gli stessi sogni: diventare un giorno cittadini dell’Europa. Ha aiutato migliaia di studenti, speriamo che questo gruppo possa essere un giorno una forza per una nuova Bosnia. Come sapete qui ancora sono presenti i soldati stranieri. Non abbiamo stabilità politica, viviamo una eterna tregua. Abbiamo bisogno di persone illuminate, aperte. La pace è una cosa fragile, è esposta sempre alla possibilità di rovinarsi.
Il generale era cresciuto sempre con l’idea di unità e fratellanza. Secondo lei, può essere considerato una figura che ben ha saputo esprimere quello spirito di fratellanza umana auspicato nella recente Enciclica di Papa Francesco?
R. – Sì, certamente. Lui ha peraltro sempre ammirato molto i frati francescani e il loro modo di salutare tutti come ‘fratelli’, appunto. Lui stesso ci salutava: “Buongiorno, fratelli”. Era una persona che vedeva le ferite della gente, le ferite della guerra e voleva curarle, cresciuto dove il dolore è ovunque. Lui ha detto: adesso vogliamo creare una nuova Bosnia, dove psssiamo costruire la speranza e la felicità tramite i fratelli.
Come si vive adesso a Sarajevo e quali frutti sono maturati in questa regione dalla visita del Papa nel 2015?
R. – C’è la pandemia, come ovunque. Dal punto di vista sociale, è una società ancora divisa. Non si trova ancora la via per uscire dai nazionalismi. Ci sono sempre gli stessi partiti. Speriamo che le forze democratiche crescano sempre di più. Sono passati venticinque anni dalla fine della guerra e ancora il tribunale non ha terminato il suo lavoro. Ancora incontriamo gente che celebra i crimini di guerra. E’ una cosa triste. L’economia non funziona bene. Ringraziamo tutti benefattori che portano viveri qui. Speriamo che potremo costruire un nuovo Paese. Il messaggio del Papa ancora resta purtroppo come qualcosa ancora da realizzare. La pulizia etnica ancora è un pensiero diffuso, una cosa stupida.