Il cardinale Arizmendi: l’assassinio di padre Marcelo non ferma il desiderio di pace

Vatican News

Il porporato vescovo emerito di San Cristóbal de las Casas in Messico ricorda la figura del sacerdote ucciso domenica 20 ottobre nel Paese latinoamericano: ha sempre sostenuto la riconciliazione, il rispetto reciproco. A qualcuno non piaceva e l’ha voluto eliminare, ma questa è un’opera di Dio, un’opera della Chiesa che va avanti

Johan Pacheco – Città del Vaticano

“Ventidue anni fa l’ho ordinato sacerdote e per molto tempo ha lavorato nelle comunità Tsotsil”. Il cardinale Felipe Arizmendi Esquivel, vescovo emerito del Chiapas, ricorda l’eredità del sacerdote Marcelo Pérez, ucciso domenica 20 ottobre, come uomo di comunione con la Chiesa che ha sempre sostenuto la giustizia e la pace tra i popoli. “Un devoto servitore del Vangelo e del popolo fedele di Dio”, così lo aveva definito dal Papa all’Angelus di domenica 27 ottobre.

Padre Marcelo, morto per la pace e la riconciliazione

Il porporato descrive la situazione nel Chiapas, fatta di costante e sempre più massiccia migrazione, il che rende sia alle istituzioni governative, così come anche alla Chiesa, molto difficile prendersi cura delle comunità che spesso sono soggette all’azione di gruppi armati che “si contendono il controllo del territorio non tanto per la droga, ma per estorcere denaro, soprattutto ai migranti”. Le comunità indigene nelle quali ha vissuto padre Marcelo, spiega il cardinale, spesso sono “in lotta tra loro per il potere politico”, ed è in queste situazioni che il sacerdote assassinato “ha sempre sostenuto la pace, la riconciliazione, il rispetto reciproco, il fatto che nessuno dovesse abusare del proprio potere o altro. Sembra quindi che ad alcuni non sia piaciuto e abbiano voluto eliminarlo, ma questa è un’opera di Dio, un’opera della Chiesa, e non può essere fermata”.

Eminenza, otto giorni dopo questo evento drammatico cosa si sa dell’omicidio del sacerdote?

Il governo dice di aver già arrestato il presunto colpevole che però incolpa altri. Bisogna capire poi chi sono i mandanti e la ragione di questo omicidio.

Qual è stata l’opera di padre Marcelo Pérez e qual è la sua eredità?

Padre Marcelo era di origine indigena, dell’etnia Tsotsil. Lì aveva promosso il rispetto reciproco, la pace e la riconciliazione. Era stato nominato dal mio vescovo successore nella parrocchia di Nuestra Señora de Guadalupe, a San Cristóbal de las Casas, e anche da lì aveva continuato a sostenere le cause della pace e della giustizia. Il suo lavoro è stato fondamentale, in comunione con tutti, non è mai stato un uomo isolato, né per cause politiche né di altro tipo. È sempre stato un uomo di Chiesa e di preghiera, un servitore di Dio e delle cause del popolo, soprattutto della pace, della riconciliazione e della fraternità.

Qual è la strada per trovare la pace e il rispetto della vita in Chiapas e in altri luoghi del Messico che vivono simili conflitti?

Dobbiamo tutti continuare a lavorare sulla pace in famiglia in primo luogo, e poi nei quartieri, tra vicini, nelle comunità. Educare tutti, questo era il lavoro di padre Marcelo ed è quello della Chiesa, noi continuiamo a farlo parlando di riconciliazione e di pace, mai di violenza e armi. Il governo ha molte preoccupazioni, come quella di arrivare al disarmo dei questi gruppi che dominano i territori, nelle comunità indigene e altrove, nel Chiapas e nel Messico. L’autorità civile ha la grande responsabilità di fare di più affinché questi gruppi, che si sentono liberi di agire, sia per l’estorsione che per il traffico di droga, possano essere disarmati e smantellati. Nella mia piccola città non c’è violenza perché tutti pagano quello che i gruppi armati chiedono, pagano una tassa su qualunque cosa si venda, uova, tortillas, mais. Anche se si costruisce una casa, i materiali devono essere venduti al prezzo da loro stabilito. Ho parlato con alcuni dei leader di questi gruppi armati, ma non mi ascoltano, ciò che conta sono i soldi e le armi. Il governo deve fare la sua parte, così come deve farla la Chiesa nell’evangelizzare. Non possiamo smettere di promuovere la giustizia, il rispetto, e soprattutto la pace.

Lei intende dire che la comunità è sempre sotto attacco ed estorsione?

Totalmente, le persone si sentono indifese perché il governo chiede che si denunci quanto accade, ma il popolo ha paura, perché rischia rappresaglie. L’esercito, la guardia nazionale, la polizia devono essere presenti per proteggere la popolazione povera. È giusto incoraggiarla a denunciare, ma poi il governo deve fare la sua parte, così come noi dobbiamo fare la nostra.

Per la Chiesa in Messico, questa testimonianza di padre Pérez e di tanti altri è un aiuto a vivere fedelmente il Vangelo, soprattutto di fronte alle ingiustizie …

Sì, questa è la nostra vocazione. Non imporremo la pace con le armi. Gesù Cristo non l’ha mai fatto in questo modo, lo ha fatto con la predicazione. La stragrande maggioranza delle persone ci ascolta. Ma ci sono altri gruppi che sono molto attratti dal denaro e che per il denaro si alleano con altri. Come ha detto il Papa, la guerra non ha l’ultima parola, il male non ha l’ultima parola, Dio ha l’ultima parola. E il fatto di continuare a costruire la pace non dipende solo dal governo, ma da ognuno di noi, governo, società, Chiesa, famiglie, scuola, media. Facciamo tutti quello che si può fare per portare la pace.