Antonella Palermo – Città del Vaticano
In tutta Italia e in molte città all’estero, enti, istituzioni, università, scuole, associazioni da almeno un anno si sono attivate per prepararsi alla celebrazione del settimo centenario dalla morte del sommo poeta Dante Alighieri. Il 25 marzo è il giorno in cui gli studiosi riconoscono l’inizio del viaggio letterario di Dante nell’aldilà: il Dantedì, promosso dall’Accademia della Crusca, grazie al supporto della rete e dei social network offre incontri di carattere scientifico, di divulgazione, esposizioni, letture.
Il cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Commissione Dantesca istituita presso il Vaticano per celebrare l’anniversario di Alighieri, commenta ai nostri microfoni la Lettera Apostolica Candor Lucis Aeternae:
Perché Dante ci parla ancora?
R. – La sua figura, noi l’abbiamo in mente soprattutto nelle rappresentazioni che troviamo all’interno degli spazi vaticani, nel Palazzo apostolico dove Raffaello l’ha rappresentato ben due volte con un profilo piuttosto segaligno e austero. Lo ha rappresentato prima tra i teologi, nella cosiddetta Stanza della Segnatura, e poi sempre in una scena di quella stanza, nel Parnaso tra i poeti. Ecco, Dante ha saputo intrecciare queste due dimensioni, per cui ha attraversato tutta la storia dell’Occidente: soprattutto come grande poeta, ma anche come grande credente. E quindi è rimasto sempre sul crinale della fede e dell’arte, sul crinale della storia e della trascendenza, del mistero, dell’eterno. E questa è stata un po’ la sua grandezza che ancora oggi può in qualche modo incidere nella nostra vicenda attuale attraverso una testimonianza che è soprattutto di speranza in un “oltre” partendo dal fango dell’Inferno.
Rileggere la Divina Commedia è dunque una sorta di iniezione di speranza?
R. – Sì, difatti abbiamo come definizione ideale della figura di Dante un’espressione che è cara anche un po’ alla tradizione e che è presente anche nella Lettera di Papa Francesco: quella di essere stato un profeta di speranza. Noi sappiamo che lui ha avuto, con la Chiesa e col mondo, con la sua cultura e la sua società, un rapporto dialettico, teso. Senza esitazione egli mette in una bolgia infernale un Papa ancora vivente, Bonifacio VIII, con una polemica abbastanza severa; e dall’altra parte, vediamo che i fiorentini li denomina “scelleratissimi”. Denota che egli aveva un rapporto tormentato con la realtà in cui era inserito, però al tempo stesso ininterrottamente egli punta lo sguardo verso un oltre e verso un Altro, l’oltre del Paradiso, per esempio, cioè della meta estrema nostra e anche un Altro che ha un volto umano ma trasfigurato. E’ una cosa veramente suggestiva questa: all’interno della Divina Commedia, nel canto XXXII, quando rappresenta la Trinità – nei famosi tre cerchi dai colori diversi, le tre persone che però hanno un’unica “contenenza”, come dice lui, cioè un unico spazio – abbiamo, al centro, la sorpresa di trovare la “nostra effige” dice, perché il volto di Cristo è un volto di uomo con le caratteristiche dell’umanità ed è per questo che noi ci troviamo nell’interno del divino, dopo aver percorso l’amarezza della storia, che può essere anche la storia come quella nella quale noi siamo ora inseriti.
La vita di Alighieri esule cosa dice all’uomo e alle donne di oggi?
R. – La sua esperienza evidentemente è abbastanza drammatica. Quasi tutta la sua esistenza sarà fuori di quell’orizzonte che egli ama, pur sempre; Firenze è nel suo cuore, tant’è vero che ricorderà quel suo “il mio bel San Giovanni”. Non dimentichiamo che Paolo VI ha fatto consegnare al Battistero di Firenze, il San Giovanni, una corona d’alloro in memoria del poeta e ha anche dato – questo non lo si sottolinea – a tutti i padri conciliari una edizione della Divina Commedia. Quindi il fiorentino Dante è pur sempre la figura che noi abbiamo in mente e che lui stesso credo amava rappresentare, nonostante lo sdegno per ciò che aveva subìto. Però egli era alla fine anche una sorta di pellegrino che poi morirà all’estero. Vive il paradigma di un autentico viaggio in cui l’umanità tutta è coinvolta. E’ il pellegrinaggio attraverso “l’aiuola che ci fa tanto feroci” – cioè il nostro mondo, come dice nel canto XXII del Paradiso – per giungere a una condizione sperata che per lui non si realizzerà. Anche se quando muore a Ravenna è piuttosto sereno, protetto, alla fine dentro di lui quell’armonia, quella pace e quella felicità sono sempre ancora da raggiungere ed è per questo che le canterà nel Paradiso. E’ per questo che è stato un pellegrino della storia, un esule come tanti oggi che cercano un approdo a un litorale diverso, a una spiaggia diversa, tenendo sempre alta “la fiaccola dell’alto disìo”.
Dante usa la “lingua di tutti”, Papa Francesco lo paragona al Santo di Assisi. Questo aspetto di universalità significa adoperarsi anche oggi per promuovere una sempre maggiore accessibilità ai contenuti culturali?
R. – E’ una grande lezione che io credo Dante offra a tutti noi: saper unire, e questo è frutto evidentemente del genio suo. Da una parte, ha l’estrema capacità di rendere nel linguaggio comune, il volgare appunto, il desiderio di far sì che tutti riescano in qualche modo non più attraverso la nobiltà del latino, il linguaggio dell’aristocrazia intellettuale. Dall’altra, c’è la sequenza delle immagini. Dante è per molti aspetti veramente una figura multimediale perché già capace: in tutti i 14223 endecasillabi dei 100 canti si può dire che c’è un’immagine che brilla. Lui non parla soltanto attraverso le parole o una sofisticata riflessione teorica. Lui parla ininterrottamente mostrandoti delle scene e facendo sì che colui che legge il testo con accuratezza veda quelle immagini, come se avesse davanti lo schermo di un computer o televisivo. Oltre a questa sua estrema capacità di essere “popolare”, c’è la grandezza della sua riflessione. Dante è un grande poeta, ma è un grande teologo e un grande scienziato anche per la sua visione cosmologica, è un grande filosofo. In pochi sanno stare su un crinale per cui da un lato abbiamo lo sguardo in luce, trasparente, immediato, un orizzonte che tutti possono percepire e inseguire, e dall’altra parte un versante oscuro, nel quale bisogna entrare con fatica. È proprio una sorta di armonia mirabile tra poesia purissima e raffinata speculazione.
Nella scrittura della Commedia Dante usa uno stile spesso molto sanguigno, a tratti perfido, nella descrizione di certi suoi contemporanei. E’ anche questo un motivo della sua grandezza?
R. – Sicuramente, io credo proprio che questo sia anche uno dei motivi fondamentali della sua incidenza nell’interno della storia nostra perché i suoi piedi sono sempre piantati nella polvere della storia. Non dimentichiamo che vive in un periodo in cui dominava il dolce Stil Novo, la poesia cortese, il desiderio di trasfigurare, ma al tempo stesso, noi vediamo che lui, proprio in un’epoca che faceva decollare la realtà verso un cielo quasi mitico, misticheggiante, lui invece ritorna ancora a riportare il peso della storia, invita ancora a guardare con realismo la carnalità, invita a vedere la tragedia, persino la cronaca, invita a guardare in faccia quel male che è anche peccato. È una lezione morale molto alta. Detto questo, ribadita questa sua caratteristica che lo fa così vicino a noi e che permette di sentire quei suoi personaggi come personaggi del nostro tempo, non dimentichiamo che tutte e tre le cantiche terminano con la parola “stella”. Nell’Inferno, dopo aver attraversato tutto il male del mondo, i vizi, le umiliazioni, le ipocrisie, il groviglio scuro di vipere che è la miseria umana e anche la libertà umana, c’è questo “riveder le stelle”; e poi il Purgatorio e la grande catarsi che ci permette finalmente di vedere il senso ultimo dell’essere, dell’esistere, che non è il vuoto, il nulla, la distruzione, il male, ma è appunto quell’infinito, quel mistero che prima si evocava.
Eminenza, lei quand’è che si è avvicinato per la prima volta alla Commedia e da cosa fu più colpito?
R. – Al Liceo. Ho avuto la fortuna di avere un professore che mi aveva creato tutta l’attrezzatura filologica ma anche tutta la capacità di entrare nella poesia, nell’armonia, nella musica della Divina Commedia, nella spiritualità. A questo proposito, faccio un appello alle scuole – come fa il Papa alla fine della sua Lettera Apostolica – perché sappiano non soltanto spiegare le note in calce ma rendere la bellezza, la passione… Dopo aver studiato tante altre cose nella mia vita e dopo aver soprattutto dedicato molto spazio alla Bibbia – che è fondamentale anche in Dante: è stato calcolato che ci sono 588 citazioni della Bibbia nella Divina Commedia – ho avuto anche la fortuna di essere Prefetto della Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana di Milano, e un mio predecessore, accanto all’appartamento che anch’io allora usavo, aveva costruito negli anni trenta del secolo scorso una torre.
Questa torre aveva uno sguardo meraviglioso sul Duomo di Milano. Lui ogni giorno saliva a leggere un canto della Divina Commedia così come recitava il breviario. Ecco, io ho voluto ripetere questa azione, non sempre, ma spesso quando non ero impegnato altrove, salivo. Ed è stato questo un modo per farmi accompagnare da Dante e per dire anche quello che diceva uno scrittore caro a Papa Francesco, Jorge Luis Borges, autore di ben nove saggi danteschi: nessuno ha il diritto di privarsi di questa felicità che è la Divina Commedia. Per chi l’ha letta tanto, c’è sempre qualcosa che ti affascina in maniera diversa. Alcune volte è semplicemente un’espressione, per esempio, penso “all’eterno dal tempo”: c’è tutta la Divina Commedia (Paradiso, XXXI). Oppure “come l’uom s’etterna” (Inferno, XV) per dimostrare come l’uomo carnale, fragile, debole e peccatore può eternarsi. Ma io vorrei ricordare la scena del folle volo di Ulisse perché rappresenta una componente della mia stessa vita: la ricerca di un orizzonte più alto che però certamente può essere anche rischiosa. Ci può essere infatti, lo sappiamo, la hýbris, la sfida alla divinità quando non più consapevoli di essere limitati. Magari possiamo proprio esercitarci a ritrovare quelle pagine che a scuola abbiamo a suo tempo letto e studiato e che hanno lasciato in qualche modo una scia nella nostra esistenza.
Le celebrazioni dantesche previste quest’anno in che modo possono realmente contribuire a rilanciare lo studio e la conoscenza del poeta anche al di fuori dei programmi scolastici, tanto più in tempi di didattica a distanza?
R. – Io vorrei ricordare i molti eventi che come Commissione vaticana dantesca abbiamo organizzato e che accompagneranno tutto l’anno dantesco a partire dal 25 marzo quando apriremo una mostra virtuale per viaggiare con Dante, curata con i materiali della Biblioteca Apostolica Vaticana. Si può immaginare quale ricchezza c’è: manoscritti, codici, libri antichi, le incisioni… Poi ci sarà una in cui abbiamo coinvolto i Musei Vaticani, un’altra mostra virtuale. Vorremo inoltre fare un’esperienza, purtroppo solo su inviti, limitata, ma speriamo di poterla fare anche televisivamente: Dante nelle catacombe. Ci saranno quattro attori: Carlo Verdone, Margherita Buy, Alessandro Haber e Nancy Brilli che rileggono e interpretano alcuni passi scelti da loro. E ancora, un convegno scientifico all’Università Roma Tre sulla figura di Dante e le grandi questioni dell’oltrevita che lui pone.