Antonella Palermo – Città del Vaticano
Non si placa il clima di altissima tensione per le strade del Myanmar, dove il bilancio delle manifestazioni sale a 250 vittime. Secondo l’organizzazione non profit per la difesa dei diritti umani, basata in Thailandia, ieri si sono aggiunte alla lunga lista dei morti altre 3 persone: una è stata uccisa dalle forze di sicurezza a Monywa, nella regione di Sagaing, una è caduta dal quinto piano di un palazzo a Yangon mentre tentava di fuggire durante un’irruzione dei militari nella sede di una ong e una ancora è stata uccisa nei giorni scorsi, ma la sua morte non era stata registrata. Inoltre, fino a sabato erano state arrestate 2.345 persone.
Scendono in campo anche gli operatori sanitari
La notte scorsa i manifestanti, tra cui molti medici in camice bianco, hanno marciato a Mandalay contro la repressione della giunta militare. Circa 100 operatori sanitari – infermieri, studenti di medicina e farmacisti – si sono messi in fila su una delle strade principali della città, cantando slogan ed esprimendo la loro opposizione al colpo di stato del 1° febbraio, che ha rovesciato il governo civile eletto di Aung San Suu Kyi.
Sanzioni dall’Europa
L’Unione Europea imporrà sanzioni contro 11 funzionari in ex Birmania accusati di coinvolgimento nel colpo di stato militare e nella violenta repressione dei manifestanti. Lo ha annunciato l’Alto rappresentante dell’Ue, Josep Borrell, prima di presiedere la riunione del Consiglio Affari esteri. I capi delle diplomazie dei 27 daranno il via anche ad altre misure restrittive per le violazioni dei diritti umani. “Imporre sanzioni è inevitabile. Ma saranno mirate a quanti sono responsabili delle violazioni dei diritti umani. Non vogliamo punire la popolazione”. Così il commento del ministro degli Esteri europeo, Heiko Maas, parlando delle “inaccettabili violenze” contro i manifestanti.
Sospeso il profilo twitter del Ministero dell’Informazione
Twitter intanto ha sospeso l’account del Ministero dell’informazione, ora controllato dall’esercito, per presunta violazione delle regole della società. Intanto la Bbc ha reso noto che il suo giornalista birmano, prelevato venerdì scorso nella capitale da uomini non identificati, Aung Thura, è stato rilasciato.
Una protesta di popolo, non elitaria
Sul significato della discesa in piazza anche dei medici, il giornalista Gerolamo Fazzini, esperto dell’area asiatica afferma che “è la conferma che questa è una protesta popolare, non la protesta di un gruppo o di una classe sociale unica”, sottolinea, ricordando che fa seguito a una protesta partecipata dagli studenti, da funzionari dello Stato, ma anche da altre categorie socio-economiche, soprattutto sono scesi in piazza credenti di tutte le religioni, buddisti, che sono la maggioranza, ma anche cristiani e cattolici, in particolare.
Il coraggio della Chiesa
“La cosa interessante è che, in questa occasione e diversamente dagli anni precedenti, per esempio dal 2007 o dal 1988, la Chiesa cattolica stavolta è proprio in prima fila”, precisa Fazzini. Ricordando l’immagine di suor Ann Rose Twang in ginocchio di fronte ai militari, a cui hanno fatto eco le parole di Francesco del 17 marzo, del coinvolgimento di vescovi, laici credenti e di altri religiosi locali, Fazzini conferma che “la Chiesa sta mostrando di stare dalla parte della gente e lo fa con coraggio. Numericamente è una presenza molto, molto esigua, ma ha contribuito al fatto che queste manifestazioni siano sostanzialmente pacifiche. Laddove si creano disordini è perché ci sono infiltrati”.
La leadership di Aung San Suu Kyi
La donna, che resta ancora in isolamento, “è di fatto il punto di riferimento della gente, i cartelli con il suo volto usati da chi scende in strada a protestare sono il segno che molti si riconoscono in lei come leader”, afferma Fazzini, e a questo proposito aggiunge che “la comunità internazionale ha preso le distanze da lei a motivo della questione relativa ai Rohingya, la minoranza molto penalizzata nel Paese”. La precisazione di Fazzini è che “questo è un problema di fronte al quale lei non ha aveva molti spazi di manovra, ha dovuto sempre fare i conti con la pressione molto forte dei militari. La comunità internazionale invece ha addossato su di lei tutta o quasi la colpa delle discriminazioni. Seppure si fosse macchiata di qualche responsabilità, continua – dobbiamo tenere anche presente la complessità del Myanmar dove, solo per dire un dato, ci sono 136 gruppi etnici diversi, alcuni in lotta tra loro o in lotta con lo Stato centrale da decenni. Gestire una situazione del genere per una leader democratica non era senz’altro facile”.
Migliaia di persone di etnia Karen fuggite nella giungla
A proposito del mosaico di etnie presenti in Myanmar, sta emergendo la criticità in cui vivono, nelle giungle del sud-est del Paese, migliaia di persone Karen che i militari opprimevano molto prima del colpo di stato. Una repressione, in gran parte invisibile, che ha spinto 8.000 persone a fuggire dalle loro case in quello che i gruppi di aiuto dicono essere il peggiore sconvolgimento da quasi dieci anni. Ora vivono in rifugi di bamboo, con timori crescenti per la loro salute e sicurezza, e nessuna prospettiva di un ritorno anticipato. L’Unione Nazionale Karen per ora si sta facendo carico di tutti i bisogni di base degli sfollati, ma si temono le conseguenze di lungo termine. Il gruppo umanitario dei Free Burma Rangers fa sapere che la gravità della loro condizione dipende molto dal fatto che “non possono prepararsi per i prossimi campi e badare agli animali”.
Il ruolo della comunità internazionale
Fazzini è convinto che non solo i Paesi dell’Asen (Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico) debbano essere coinvolti nella risoluzione politica ed economica in Myanmar. Fazzini richiama l’attenzione su un Paese di fatto bloccato, dove a farne le spese è sicuramente la gente più povera. Il clima di pace inciderebbe sull’economia che altrimenti peggiorerebbe di settimana in settimana. “Se la comunità internazionale non prende l’iniziativa e non si dà da fare per cercare di dirimere questa situazione – scandisce – il popolo del Myanmar rischia la disfatta. Se ci rassegniamo alla logica della violenza e dei militari che calpestano i diritti, sarebbe veramente un gesto di realpolitik tanto clamoroso quanto pericoloso”.
L’armonia invocata da Papa Francesco in Myanmar
Nel viaggio in Myanmar, nel novembre 2017, il Papa aveva molto insistito sul tema dell’armonia, la parola chiave su cui ancora puntare, secondo Fazzini. “Bisogna ritrovare gli spazi di un dialogo. Tutto sommato i militari, pur con grandi ingerenze e un sistema imperfetto, era riuscito a contemperare la presenza di forze democratiche. Se si riuscisse a fare un passo indietro e a ritornare a quello scenario, affermando la volontà del popolo – conclude – sarebbe già un buon risultato. Ma da solo il Myanmar non ce la fa”. Il suo realismo arriva a una dichiarazione per certi aspetti scomoda: “E’ vero che c’è il Covid e non è il tempo per fare grandi manifestazioni, ma è vero che la comunità internazionale si sta mostrando un po’ sorda di fronte alle istanze di un popolo che ha diritto di far sentire la propria voce. Ci vuole un intervento un po’ più ampio, perché non è una questione locale”.