Il conflitto tra le forze del generale Abdel Fattah al-Burhan e quelle del generale Mohamed Hamdan Dagalo ha già costretto oltre 700 mila sudanesi a riparare nel Paese confinante. Fratel Fabio Mussi, missionario laico del Pime: “Da giugno 2023 nei campi profughi portiamo avanti interventi di tipo umanitario, ma è il momento di passare dalla assistenza alla resilienza”
di Giada Aquilino
Sono partiti dal Ciad i primi due convogli di cibo e aiuti umanitari del Programma alimentare mondiale (Wfp) giunti a fine marzo in Darfur, regione occidentale del Sudan, teatro di una sanguinosa guerra nei primi anni Duemila, con un bilancio di 300.000 morti, e oggi uno dei focolai del conflitto in corso da un anno tra l’esercito di Khartoum e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf). I corridoi umanitari dal Ciad erano stati chiusi a febbraio, poi sono seguite settimane di negoziati portati avanti dall’agenzia dell’Onu per garantire un accesso agli aiuti d’emergenza ad almeno 250.000 persone. Secondo le Nazioni Unite sono circa 700.000 i profughi sudanesi — perlopiù Masalit del Darfur — rifugiatisi in Ciad dallo scoppio dei combattimenti, il 15 aprile 2023, tra le forze del generale Abdel Fattah al-Burhan e quelle del generale Mohamed Hamdan Dagalo.
«Tutta la zona del Ciad che confina col Sudan, più di 1.000 km, fa parte del Vicariato Apostolico di Mongo», spiega fratel Fabio Mussi, missionario laico del Pime ed economo di tale realtà territoriale ecclesiastica nell’est del Ciad. «Siamo quindi i primi interessati dai flussi migratori dal Sudan e per questo — aggiunge — da giugno 2023 nei campi profughi portiamo avanti interventi di tipo umanitario e di assistenza, con aiuti alimentari, cereali, leguminose, cibo in scatola, pasti caldi, o di supporto, come stuoie, coperte, zanzariere, pentole, saponi, docce». Le attività, attraverso il coinvolgimento della Caritas diocesana e in collaborazione con le organizzazioni internazionali, al momento sono concentrate a Farchana e Metché, oltre che a Djabal e Ouran, dove sorgono alcuni degli oltre 15 campi profughi che ospitano sudanesi fuggiti in Ciad a causa della guerra.
In quasi un anno di intervento «abbiamo potuto accompagnare o dare una mano a circa 50.000 persone con delle distribuzioni periodiche, ma col passare del tempo ci siamo resi conto che si doveva passare da una fase di assistenza a una di resilienza, cercando di fornire mezzi che permettessero alle persone di cominciare a prendersi carico di loro stesse con delle piccole attività. Quindi, grazie alle animatrici della Caritas, abbiamo iniziato ad aiutare gruppi di donne, sia rifugiate sia locali, che hanno avviato orti comunitari, piantando pomodori, cipolle, carote, melanzane», nei fondivalle o nelle zone pianeggianti attorno soprattutto al campo di Metché. L’obiettivo, prosegue il missionario laico del Pime, è di organizzare al meglio il loro lavoro, fornendo «attrezzature basiche per poter produrre, una moto-pompa, una recinzione metallica per gli orti, delle sementi che permettano di far crescere meglio, in qualità e quantità, i prodotti». Pochi mesi hanno generato risultati soddisfacenti, fa notare fratel Mussi, in un momento in cui sul terreno ci sono 45 gradi all’ombra e tra una quindicina di giorni si intensificherà la stagione più calda dell’anno in Ciad. «Le donne hanno cominciato a vendere minime parti dei loro raccolti, cipolle, aglio, erbe. Raccontano che prima erano costrette a rivendere 5 o 10 kg di quello che ricevevano come aiuti esterni, magari per procurarsi in cambio sale o medicine, e invece ora intravedono una possibilità di autosufficienza». Un inizio, ma importante, ci tiene a sottolineare l’economo del vicariato apostolico di Mongo, affiancato in questo impegno da una campagna lanciata dal Centro missionario e dalla Fondazione Pime di Milano.
Ma le testimonianze dei profughi sudanesi in Ciad, in stragrande maggioranza donne e bambini, non si fermano qui. «Al villaggio di Metché abbiamo incontrato una ragazza, Fatime, che vendeva tè al mercato: ci ha raccontato di essere scappata dal Sudan perché il nonno, il padre e due fratelli erano stati uccisi. Lei è riuscita a partire con la madre e due altri fratelli più piccoli. Ci ha confidato: «Ho solo 14 anni, eppure il mio cuore è ormai vecchio, perché ho visto il male che gli uomini possono fare. Ma adesso sono la sorella maggiore e devo preoccuparmi dei fratelli più piccoli». Nei suoi occhi pieni di lacrime, da una parte c’erano la disperazione e il vuoto, dall’altra anche il coraggio di guardare avanti con fiducia». Una speranza che oggi accomuna oltre 8 milioni e mezzo di sfollati e profughi sudanesi causati dalla guerra — 1,8 milioni dei quali, riferisce l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, si trovano ora tra Ciad, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, Egitto, Etiopia, Uganda — nel rilanciare un appello, più volte fatto proprio da Papa Francesco, affinché «cessi al più presto la violenza» e «sia ripresa la strada del dialogo».