Dal 7 ottobre il Paese è diventato un nuovo fronte nella guerra regionale con il coinvolgimento di Hezbollah nella lotta con lo Stato ebraico. Migliaia di civili sono fuggiti dai villaggi non lontani dal confine e ora sono accolti a nord di Beirut, nella casa di accoglienza Hadeal nata nel 2023. Il grande timore è che i cristiani non tornino più. Monsignor Abdallah, arcivescovo maronita di Tiro: “Restiamo uniti di fronte al pericolo”
Olivier Bonnel – Beirut
In un grande edificio di cemento e vetro ha sede l’associazione Hadeal. I bambini giocano rumorosamente in un ampio soggiorno, sotto l’occhio vigile dei genitori. Siamo ad Antélias, cittadina a pochi chilometri al nord di Beirut. Negli ultimi cinque mesi sono state accolte una trentina di famiglie, tutte fuggite dal sud del Libano. I loro villaggi vengono bombardati quasi quotidianamente dall’esercito israeliano. “Qui offriamo uno spazio accogliente per queste famiglie, con camere tranquille e soprattutto un ambiente accogliente per i bambini”, spiega Charbel Merhej, direttore del centro, che parla di “una grande famiglia”.
Una giovane Ong
Hadeal è una giovanissima Ong, fondata nel settembre 2023, poche settimane prima dello scoppio della guerra tra Hamas e Israele. L’associazione è nata grazie al sostegno di monsignor Hanna Alwan, uno dei vicari del Patriarcato maronita di Beirut e riunisce una trentina di volontari. Nel centro vivono ormai un centinaio di persone, in seguito agli arrivi e agli attacchi al confine meridionale. Karim, contadino di 53 anni, è fuggito a nord in taxi, accompagnato dal fratello e dalla madre ottantenne. “Non ho speranza di tornare subito nella mia terra. Forse accadrà, ma temo che questa guerra andrà avanti per molto tempo. Ma alla minima occasione torneremo”, dice. “In alcuni dei nostri villaggi ci sono case rubate o distrutte. Sarà un vero problema dopo la guerra”.
“Il Libano è la nostra terra”
Non lontano, Leïla siede accanto ai nipoti. Con i suoi cari ha dovuto lasciare il villaggio di Qouzah: “Dall’inizio della guerra siamo fuggiti”, racconta, “prego di poter ritornare nel mio villaggio, che questa guerra finisca, prego il Buon Dio che i miei i nipoti abbiano un futuro in Libano perché è la nostra terra”. Nei centri di accoglienza, oltre all’assistenza e agli spazi a misura di famiglia, è necessario prendersi cura anche dei bambini che non vanno più a scuola. Gli insegnanti, che restano al Sud, inviano i compiti via Zoom o WhatsApp. Simon Terrier, un giovane volontario dell’Œuvre d’Orient, li aiuta con il sostegno accademico, un compito che scopre e che richiede molta attenzione. “Abbiamo abbandoni scolastici e dobbiamo tornare alle basi con alcuni studenti”. Secondo Simon, “i bambini non sono toccati più di tanto dalla guerra che infuria nel sud, perché è una questione che va oltre loro. Non possiamo invece dire la stessa cosa dei ragazzi che frequentano gli studi superiori o dei giovani padri, che hanno molte difficoltà a proiettarsi nel futuro.
Le paure di un vescovo
Un vescovo segue particolarmente questa guerra che invade il Libano, monsignor Charbel Abdallah, arcivescovo maronita di Tiro, la grande città nel sud del Paese. Negli ultimi mesi diversi villaggi della sua diocesi, così come le parrocchie, sono stati svuotati. “Nel villaggio di Qouzah sono rimaste solo due o tre persone per assistere alla messa con il sacerdote”, spiega. Il Sud del Libano è stato spesso territorio di conflitto, “ma questa volta la portata è molto più pericolosa”.
Il grande timore è che i cristiani non ritornino mai più nella regione e che l’equilibrio demografico rimanga sbilanciato. Tuttavia, secondo il presule, il conflitto attuale non deve minare i buoni rapporti tra le comunità. L’arcivescovo maronita ricorda che durante la guerra del 2006 (che contrappose Israele a Hezbollah, ndr), il villaggio cristiano di Rmeich accolse 20 mila persone provenienti dalla vicina città di Ayta El Chaeb, a maggioranza sciita. “I libanesi sono un cuore solo, siano essi sciiti, sunniti o cristiani. Siamo uniti di fronte al pericolo”. E cristiani, come molti abitanti della Terra dei Cedri, vorrebbero che il loro Paese non fosse più ostaggio dei conflitti nella regione.