Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano
Botte, insulti, minacce, per tante donne è vita quotidiana, per molte altre è stata l’anticamera della morte. Il femminicidio occupa quotidianamente la cronaca, la speranza è sempre una: che le donne che subiscono violenza, denuncino gli autori, che quasi sempre sono gli uomini che fanno parte della loro vita o che l’hanno avuta in passato. Quello di Caterina Stellato è diventato un nome conosciuto nelle ultime ore. Questa giovane mamma di 40 anni, di Frattamaggiore, in provincia di Napoli, ha avuto il coraggio di uscire allo scoperto e di denunciare Antimo Carrera, il padre dei suoi tre figli che, in 25 anni di unione, l’ha massacrata con la sua brutalità.
L’uomo dal quale lei è riuscita ad allontanarsi, rifugiandosi in casa dei genitori, e al quale ha tolto anche i tre bambini, gliel’ha giurata, la morte. A testimoniare furia e odio di questo uomo c’è un video girato dalla telecamera, posta nella casa dei genitori di Caterina, di diversi tentativi falliti di scalare un tubo per arrivare alla finestra ed entrare in casa, video trasmesso dalla trasmissione Rai “Chi l’ha visto” e che ha fatto entrare questa ennesima tragedia nelle case degli italiani.
Sono viva per miracolo, racconta Caterina Stellato a Vatican News, ma quando uscirà dal carcere verrà a cercarmi:
R. – Io ero arrivata al limite della sopportazione, non ce la facevo più, veramente. L’ho fatto (la denuncia ndr) per amore dei miei figli, perché loro, ancor prima di me, non meritano di vedere tutto quello che il padre ha fatto sulla propria mamma, a cominciare dalle parolacce e finendo con le botte. Sono bambini e hanno diritto alla loro infanzia, è loro diritto vivere l’infanzia e io ho fatto questa cosa (denunciare ndr) proprio per loro, e anche per me, perché non ce la facevo proprio più, era diventato un continuo, giorno e notte, giorno e notte. Ero diventata il suo giocattolo, quando voleva giocare ci giocava, quando lo voleva rompere lo rompeva, il mio livello di autostima era a zero, psicologicamente non mi sentivo bene, fisicamente neanche e, nonostante ciò, andavo al lavoro, portavo avanti una casa, accudivo tre bambini e tutto il resto. Alla fine mi sono detta: basta! Io devo difendere la mia vita, la vita è mia, non deve essere sua, basta! È stata sua per fin troppo tempo, per 25 anni è stata sua, adesso me la riprendo. Mi devo riappropriare della mia vita, della mia dignità e devo crescere i miei figli, lo devo fare per loro.
Caterina, tu hai sopportato 25 anni di questa violenza…
R. – Lui mi picchiava di giorno, mi picchiava di notte, a volte veniva pure dove io lavoravo, dovevo scendere giù, mi faceva salire in macchina, mi picchiava anche durante le ore di lavoro! Era diventata una cosa insostenibile, una cosa bruttissima. Se dovessi raccontare tutti gli episodi potrei scrivere un libro, però uno in particolare lo voglio raccontare. Nel 2015 ero disperatissima, lui era lì, tutti i giorni a picchiarmi, tutti i giorni a picchiarmi, talmente mi strappava i capelli dalla testa che io li tagliai corti corti, presi una forbice e tagliai i capelli cortissimi. Poi, con un occhio nero, con la testa rotta, lasciai tutto e tutti, salii su un treno, senza soldi, senza documenti, come una vagabonda. Non sapevo nemmeno dove andasse quel treno, non ce la facevo più, feci questa cosa proprio per farlo riflettere, ma non fu così, perché lui la smise per un mesetto, poi ricominciò di nuovo, io già da allora lo dovevo denunciare. Ho sbagliato! Io la colpa la do pure a me stessa, perché ho sopportato troppo, dovevo fare questa cosa già da tempo, magari i miei bambini non avrebbero visto altre scene bruttissime
Caterina, quanti anni hanno i tuoi bambini?
R. – Il mio primo bambino ha 10 anni e mezzo e poi ho una coppia di gemellini, un maschietto e una femminuccia, di quasi 9 anni.
E loro oggi hanno consapevolezza di quello che è accaduto? Come lo vivono e come te lo raccontano?
R. – I miei bambini sono bambini intelligentissimi e anche sensibili. La cosa l’hanno capita pure troppo bene. Comunque, attualmente, da quando stanno con me stanno vivendo la loro normalità, la loro quotidianità, cosa che prima non avevano.
Quello che ha creato tutta questa attenzione attorno al suo caso è stato il tentativo di entrare nella casa dei tuoi genitori. Il pubblico ha preso coscienza di ciò che significa vivere braccati, nella paura di essere uccisi. Perché questa era la tua paura, quella che se lui fosse entrato in casa vi avrebbe uccisi tutti?
R. – Sì, ma noi siamo state miracolate, io e mia mamma, la fortuna è stata che piovesse, perché come si vede dal video, lui scivola per ben tre volte, se non avesse piovuto, lui ce l’avrebbe fatta a salire, e io adesso forse non sarei qui a parlare, a fare questa intervista radiofonica, non c’ero più, e i miei bambini chissà dove li avrebbero portati, senza la mamma. È una cosa bruttissima, bruttissima, però io questa paura ce l’ho ancora, anche perché lui nel momento in cui uscirà da là dentro (dal carcere ndr), verrà a cercarmi. Io già lo so, io lo conosco da 25 anni, a maggior ragione adesso che sta in carcere, lui sta ‘fermentando’, è diventato proprio una furia, un pazzo al cento per cento. Nel momento in cui uscirà verrà a cercarmi, di sicuro, non troverà me, troverà mio padre e se la prenderà con lui, troverà mia mamma e se la prenderà con lei, ormai io so già come è fatto. Quindi, io non sto in pensiero solo per me e per i bambini, io mi preoccupo pure della mia famiglia.
A seguito di questa puntata di Chi l’ha visto tante persone si sono offerte di aiutarti …
R. – Sì, ho avuto una solidarietà immensa. Infatti io ringrazio tutte le persone che hanno mandato le email, perché veramente c’è una fila di persone disposte ad accogliermi, addirittura a darmi appartamenti gratis, case famiglia, a trovarmi un lavoro. Guarda, io mi sento pure “fortunata”, molte donne al mio posto non ce l’hanno fatta, non hanno avuto tutta questa fortuna, io ho una famiglia meravigliosa, tutte le persone che hanno visto quella puntata veramente hanno mostrato una solidarietà immensa. Io ringrazio tutti veramente, vorrei andare fuori dalla mia regione, il mio sogno è crescere i miei figli con serenità.
Caterina lui ti ha isolata per 5 anni, tu non sei riuscita ad avere contatti con la tua famiglia …
R. – Io erano 5 anni che non vedevo e sentivo la mia famiglia. Sempre per colpa sua, perché diceva che erano cattivi, che non li dovevo frequentare. Io, per quieto vivere, non li frequentavo, ma comunque non mi faceva stare in pace, perché era un continuo. Diceva sempre le stesse cose, bestemmiava, insultava, mi riempieva di parolacce e mi picchiava, ho dovuto sopportare di tutto e di più, non avevo un’amica, andavo al lavoro, ero presente fisicamente, ma mentalmente stavo altrove, non parlavo con nessuno, stavo sempre ai suoi comandi, non avevo più niente, mi sentivo proprio male.
Ma ora tu hai preso il coraggio e l’hai fatto: hai denunciato e ora, con tanto coraggio, cambierai anche la tua vita. Che cosa vuoi dire a tutte quelle donne che ancora oggi sono in silenzio, che non riescono a dire nulla e non riescono a ribellarsi?
R. – Sì, veramente un appello lo voglio lanciare a tutte le donne. Io ce l’ho fatta, ce la sto facendo. Però ci sono donne che stanno in quella che era la mia situazione fino a 2-3 mesi fa. Voglio dire solo che non bisogna isolarsi, perché io l’ho provato sulla mia pelle, bisogna uscire da quel cerchio che i nostri uomini costruiscono attorno a noi. Le persone devono denunciare, le donne che stanno vivendo la sofferenza che ho vissuto io, basta uscire da quel cerchio che questi uomini creano intorno a noi, un cerchio di isolamento dalle persone. Noi siamo solo loro, solo di questi uomini, che ci devono maltrattare, che devono esercitare su di noi violenza di tutti i generi.
Tu grazie a chi sei uscita da tutto questo?
R. – Nel momento in cui sono andata al commissariato di Frattamaggiore ho trovato un ispettore, una persona deliziosa, che veramente mi ha accolto come una figlia, mi è stato vicino, mi ha parlato, mi ha spiegato tante cose. Poi ho trovato pure molta solidarietà nel centro antiviolenza di Frattamaggiore, e poi l’assistente sociale sempre di Frattamaggiore, il mio avvocato, sono state tutte persone veramente bravissime che, oltre a svolgere il loro lavoro, mi hanno parlato da amici.
Quindi l’unica cosa da ripetere a questo punto a tutte le donne è: dite quello che vi sta succedendo …
R. – Sì, devono denunciare, devono parlare, perché ne vale la pena, se ne può uscire, purtroppo loro non lo riescono a vedere perché, come dicevo appunto prima, stanno in quel cerchio di isolamento. Però, una volta uscite, le persone sono disposte ad aiutarci.
Il timore che una volta fuori dal carcere, quest’uomo possa cercare di nuovo Caterina è anche di don Maurizio Patriciello parroco di San Paolo Apostolo a Caivano, diventato famoso per la sua lotta contro i roghi tossici nella Terra dei Fuochi, e che conosce la famiglia Stellato. È stato lui a spingere la donna a far uscire la storia dalle mura domestiche. “Lei si vergognava di far conoscere la sua storia – spiega don Patriciello – quasi come se avesse anche lei una colpa. Io le ho detto di far uscire questa storia, così che tante altre donne possano essere aiutate e salvate”. l’Italia, è il richiamo del sacerdote, “deve aprire gli occhi su questo scempio che avviene sulle donne. Non passa un giorno in cui non si sente che una donna non sia stata uccisa da un uomo, quasi sempre o il marito, o un fidanzato o l’ex compagno. Lei si è convinta e così ha potuto far vedere anche quel video che avevano registrato a casa sua”. Don Patriciello ha forti timori che, non solamente Caterina, ma anche i genitori, tutta la sua famiglia, possa essere in pericolo una volta che questo uomo uscirà dalla prigione, “dobbiamo metterla al sicuro – è l’appello del parroco, che chiede che le istituzioni per prime dicano no a questa tragedia. Patriciello chiama in causa anche la Chiesa, perché alzi la voce, soprattutto per dire a queste donne di non aver vergogna e affinché si crei una profonda collaborazione tra chi subisce violenza, i servizi sociali e le amministrazioni comunali, tutti quanti assieme “perché questa battaglia o la si vince assieme o non la si vincerà mai”.