Fabio Colagrande – Città del Vaticano
Tra i temi centrali del 33mo viaggio internazionale di Papa Francesco, in programma in Iraq dal 5 all’8 marzo, c’è sicuramente il dialogo con la componente musulmana sciita che rappresenta oggi la maggioranza nel Paese arabo. Durante l’udienza generale del 3 marzo 2021, alla vigilia della visita apostolica, il Papa ha ribadito infatti l’intenzione di compiere in quest’occasione, “insieme con gli altri leader religiosi”, “un altro passo avanti nella fratellanza tra i credenti”. La nuova tappa nel dialogo sembra perciò in qualche modo riallacciarsi alla visita apostolica negli Emirati Arabi Uniti del febbraio 2019 e al documento sulla Fratellanza umana firmato in quell’occasione dal Pontefice e dal Grande Imam di Al-Azhar, Al-Tayyeb. Su questi temi è intervenuto ai microfoni di Radio Vaticana, Martino Diez, docente associato di Lingua e Letteratura araba all’Università Cattolica di Milano e direttore scientifico della Fondazione Internazionale Oasis:
R.- Le attese sul fronte del dialogo interreligioso sono sicuramente molto elevate. Possiamo dire che su questo piano Papa Francesco ha scelto una strategia che io definirei “napoleonica”. Nelle sue battaglie Napoleone – ci dicono gli storici – aveva inventato la tattica di concentrare la sua artiglieria in un punto cruciale dello schieramento avversario per poi operare uno sfondamento. Papa Francesco, ovviamente con una strategia spirituale e non bellica, sta facendo un po’ la stessa cosa. In questo caso ha scelto di andare in uno dei luoghi in cui, nel rapporto tra cristiani e musulmani, le cose sono andate direi nella maniera peggiore. Qui in Iraq, infatti, nel giugno 2014, l’Is, il sedicente stato islamico, ha proclamato la nascita del Califfato, qui c’è stato l’esodo forzato dei cristiani dalla Piana di Ninive. Papa Francesco ha scelto perciò di andare in questa terra e la sua è una vera e propria scommessa basata forse sull’idea che tutta questa esperienza così tragica può aver lasciato una traccia nei cuori della gente. Può aver reso le persone più attente rispetto ai pericoli del fondamentalismo e dell’estremismo.
Come considerare l’incontro del Papa con l’Ayatollah Al-Sistani nell’ottica del percorso già avviato ad Abu Dhabi nel 2019 con la firma del Documento sulla Fratellanza umana assieme all’Imam di Al-Azhar?
R.- In un certo senso potremmo dire che è un percorso che si completa. In Iraq, in questo momento, la maggioranza della popolazione è sciita. Si tratta di una comunità religiosa organizzata in maniera molto gerarchica che ha questa figura molto importante e rispettata che è appunto l’Ayatollah Al-Sistani. D’altra parte il versante sunnita, soprattutto dopo la vicenda tragica del Califfato dell’Is non può vantare delle figure dello stesso spessore all’interno del Paese. Quindi, credo si possa fare un parallelo e trovare un comune denominatore tra queste due figure: Al-Sistani e lo Shaykh di al-Azhar. Sono figure che hanno ovviamente un ruolo diverso, perché è diversa la comprensione dell’autorità per i due principali gruppi musulmani, ma hanno in comune la cautela nei confronti dell’islam politico. Sappiamo che anche nello sciismo l’islam politico e molto ben presente perché è proprio l’opzione rivoluzionaria che ha dato origine alla rivoluzione iraniana del 1979. Al-Sistani però si è sempre mantenuto distante rispetto alla dottrina cardine dell’islam politico sciita e, di conseguenza, non ha mai rivendicato per sé un ruolo politico attivo. Questo naturalmente significa che è più facile trovare con lui un terreno di incontro dal punto di vista del dialogo. In questo senso, io parlerei quasi di un’istanza “escatologica” che questo tipo di sciismo antepone rispetto al progetto politico, rimandandolo al momento in cui, secondo i principi dell’islam sciita, ci sarà il ritorno del loro leader, che però è rimandato alla fine della storia. Questo crea perciò uno spazio in cui è possibile incontrarsi.
Quanto l’impegno del Papa per la fratellanza e il dialogo con l’islam sciita può avere ricadute positive sulle condizioni di vita della minoranza cristiana?
R.- Credo che questo impegno per il dialogo sia essenziale. In questi giorni guardando i giornali iracheni si vede che viene dato ampio spazio a questa visita. Perché in fondo questo viaggio vede tornare l’Iraq al centro delle relazioni internazionali e politiche dopo anni molto difficili. È abbastanza inaudito, pensando alla storia di questo Paese, che venga dato così tanto peso alla visita di un leader religioso di una comunità che in fondo è oggi molto ridotta dal punto di vista numerico. Questo però non deve indurre a trionfalismi perché in realtà la situazione dei cristiani in Iraq si è deteriorata moltissimo. In questo senso perciò i discorsi, le dichiarazioni o gli eventuali documenti riguardo alla pace – che potrebbero essere firmati durante la visita – sono tutti passi necessari. Poi però c’è anche un’altra fondamentale questione, non religiosa ma politica, che riguarda la crisi di questo Paese e richiede di essere affrontata al più presto. Altrimenti tutti gli iracheni che potranno se ne andranno e i primi che l’hanno già fatto in gran massa, sono stati e saranno proprio i cristiani. Anche perché sono generalmente più qualificati e hanno anche più facilità a ricevere il visto per poter abbandonare il Paese. Quindi tutte le possibili dichiarazioni interreligiose sono un necessario fondamento, ma non devono far dimenticare che c’è anche una questione politica, economica e sociale che è ancora moto urgente in questo momento. Anzi, se non ci fosse il Covid probabilmente i manifestanti sarebbero in piazza Tahrir, nel centro di Baghdad, per protestare contro l’assenza di prospettive politiche nel Paese, com’è avvenuto alla fine del 2019, prima dell’inizio della pandemia. Nel mondo arabo, in questo momento ci sono molti Paesi in cui le proteste di piazza sono cessate solamente a causa del Covid, ma appena finirà questa pandemia torneremo probabilmente a vedere quest’instabilità politica e queste manifestazioni popolari di dissenso.