Su L’Osservatore Romano la testimonianza del sacerdote di un villaggio a est di Ramallah dove vivono oltre 600 cattolici latini: cerchiamo di custodire la pace nella nostra comunità, senza quella “non ci sarà pace nella terra di Gesù”
di Beatrice Guarrera
Un villaggio di circa 1.500 abitanti che conta ben tre chiese: è Taybeh, cittadina palestinese a circa trenta chilometri a nord di Gerusalemme e a est di Ramallah, conosciuta per essere l’ultimo villagio palestinese rimasto abitato interamente da cristiani. Tra i residenti, sono 620 i cattolici latini, mentre i restanti si distribuiscono tra greco-ortodossi e cattolici greco-melchiti. Lo racconta padre Bashar Fawadleh, parroco della chiesa latina di Taybeh dal 2021, originario di un altro piccolo villaggio palestinese nei dintorni di Ramallah, Aboud. Dall’inizio di questa guerra, ormai quasi tre settimane fa, le condizioni di vita in Palestina sono ulteriormente peggiorate: «Abbiamo paura di uscire dalle cinque del pomeriggio in poi. I coloni degli insediamenti israeliani attaccano le persone. Loro sono più forti di noi, perché hanno le armi, e noi allora facciamo un passo indietro, perché temiamo per la nostra vita». Secondo diverse organizzazioni internazionali per i diritti umani, oggi in Palestina ci sono almeno trecento insediamenti, illegali secondo la legge internazionale, in cui vivono circa 465.000 coloni israeliani.
«Domenica scorsa è iniziata la raccolta delle olive a Taybeh — continua il parroco — e quando le persone sono giunte nelle loro terre, sono arrivati anche i coloni e li hanno attaccati, due di loro sono stati colpiti in viso». La fragile economia palestinese dipende in larga parte dalla vendita di olio e di prodotti coltivati e dunque la difficoltà di raggiungere le proprie terre costituisce un serio ostacolo alla sopravvivenza. «Ultimamente nel villaggio abbiamo organizzato un gruppo di persone che possano proteggerci, perché non sappiamo quando i coloni potrebbero colpirci», racconta padre Fawadleh. Secondo il Ministero della salute palestinese, dal 7 ottobre ad oggi, sarebbero 104 le persone uccise, a causa della violenza dei coloni o di scontri con l’esercito, nel territorio palestinese (esclusa la Striscia di Gaza). Inoltre, la popolazione sta risentendo delle restrizioni di circolazione, a causa della chiusura alternata dei tanti checkpoint e dei posti di blocco per le strade e lungo la barriera di separazione israeliana, che impediscono a molti di recarsi per lavoro in Israele.
Le difficoltà degli abitanti della Palestina non sono una novità, secondo il parroco di Taybeh: «Siamo abituati a diversi tipi di resistenza: quella di rimanere, quella della non violenza, quella di firmare accordi. Chiediamo alla comunità internazionale di avere il diritto di vivere in questa terra, di spostarci, di viaggiare, di studiare, di giocare, diritti che non ci sono, specialmente a Gaza, una prigione a cielo aperto da oltre 17 anni». «Noi cristiani palestinesi — continua padre Fawadleh — siamo in questa terra da duemila anni e dove potremmo andare? Siamo la luce del mondo e possiamo essere la luce del mondo se diciamo la verità. Siamo sotto occupazione, dobbiamo dirlo. Ne ha scritto in una lettera di recente anche il nostro patriarca di Gerusalemme dei Latini, Pierbattista Pizzaballa». Nonostante la sofferenza, ogni cristiano è chiamato a portare gli insegnamenti di Cristo. «Dobbiamo pregare come comunità, come chiesa, nella vita quotidiana. Dobbiamo far nascere la speranza nel cuore della nostra gente». afferma il parroco di Taybeh: «In questa situazione così difficile la cosa più importante è la speranza cristiana che può darci la gioia, il sorriso, la visione positiva per il futuro, la forza e l’entusiasmo di continuare la nostra vita quotidiana in Palestina». «In ultimo — conclude padre Fawadleh — dobbiamo imparare ad amarci l’un l’altro perché se non ci amiamo non possiamo vivere in pace. E se non abbiamo pace all’interno della nostra comunità, non ci sarà pace nella terra di Gesù».