Il racconto del figlio di Eviatar e Liliach Kipnis, vittime dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre. Sette i familiari del giovane che sono ancora tenuti in ostaggio. ”Testimoniare ci dà la forza che serve per riportarli tra noi”
Francesca Sabatinelli e Roberto Cetera – Città del Vaticano
Per quanto doloroso, testimoniare “è la cosa migliore” che può fare chi ancora ha i propri familiari prigionieri di Hamas. Nadav Kipnis è il figlio di Eviatar e Liliach, la coppia di italo-israeliani sequestrati nel kibbutz di Be’er durante l’attacco del 7 ottobre e poi uccisi da Hamas, assieme al badante e ad uno zio. Altri sette membri della sua famiglia sono tutt’ora in ostaggio. Il giovane, in questi giorni in Italia con una delegazione di familiari di cittadini israeliani rapiti o uccisi, e che ha incontrato i vertici istituzionali del Paese, racconta i momenti dell’attacco, l’angoscia di non aver più notizie dei suoi cari, aggiungendo però che non è tra i palestinesi di Gaza che vanno cercati i colpevoli, che bisogna fare una distinzione tra loro e Hamas, che fa in modo di far odiare Israele e gli israeliani. Nadav e la sua ragazza rivivono uno per uno i momenti di quel 7 ottobre, da quando sono stati svegliati dall’allarme per il lancio di razzi a quando, dopo aver deciso di andare verso nord, cercano di contattare i suoi genitori, nel kibbutz a ridosso del confine con la Striscia di Gaza. “Abbiamo pensato che si trattasse solo di un altro lancio di razzi, come avviene ogni tanto e che fa parte della vita normale – sono i ricordi di Nadav – poi abbiamo sentito persone che dicevano che le loro case erano in fiamme, che erano soffocate dal fumo, che chiedevano aiuto all’esercito, che non c’era, perché sentivano spari, gente che gridava in arabo, che vedevano cadaveri e persone rapite. Solo allora abbiamo capito la gravità della situazione. Le persone cercavano di chiudersi nelle camere di sicurezza”. Nadav, attraverso i messaggi scambiati con i suoi genitori per mezzo di una app utilizzata dagli abitanti del kibbutz, viene a sapere che Eviatar e Liliach sarebbero al sicuro. L’ultimo contatto avviene con Paul, il badante del padre che è gravemente malato. Ciò che scopriranno poi è che l’ultima telefonata di Paul, quella con sua moglie, viene interrotta dagli spari. “Da allora non abbiamo più avuto contatti con nessuno di loro”, racconta ancora Nadav, che tra i rapiti ha gli zii, uno dei quali ucciso, i cugini, i nipoti, sette persone in tutto: “Per ora supponiamo che siano vivi, in modo da avere la forza di continuare a lottare per riaverli”.
Raccontare per aiutare gli ostaggi
Per tutti i familiari dei rapiti o uccisi è stato difficilissimo capire subito cosa stesse accadendo nelle case dei loro cari, molte informazioni sono arrivate poi da alcuni video, come quello girato nel quartiere di Eviatar e Liliach, “in cui si vedono i terroristi che trascinano via i civili del kibbutz, riconoscibili dai loro volti”. Questo, più le testimonianze di chi è sfuggito al massacro, hanno dato a Nadav la dimensione di cosa fosse accaduto. “Qualcuno che è riuscito a sfuggire al massacro ci ha detto di aver visto il marito di mia cugina legato con delle corde e messo in un’auto e portato via. Quindi speriamo che questo sia anche il destino di altri”. Dalle informazioni in possesso di Nadav, nel suo kibbutz sarebbero state oltre cento le persone uccise. Anche a lui, come molti altri testimoni di quanto accaduto il 7 ottobre scorso, viene immediato il riferimento a 80 anni fa, “durante l’olocausto, ed è stata una cosa che non pensavamo potesse mai accadere di nuovo: case date alle fiamme, bambini decapitati, bambini fucilati”. Per il momento Nadav non intende tornare nella sua casa, soprattutto intende continuare a testimoniare quanto accaduto per aiutare chi ancora è nelle mani di Hamas, affinché non accada loro nulla.
L’impegno per la pace
Il kibbutz di Be’er è stato fondato nel 1946 dai bisnonni di Nadav i nonni di sua madre, anche lei, come il figlio, nata lì. In quello stesso kibbutz lui, laureato in Scienze dell’educazione, lavorava come counselor con bambini e ragazzini di diverse classi. “La mia vita è con i bambini. L’idea che alcuni di loro non ci siano più, che la loro grande potenzialità umana sia stata soppressa, mi atterrisce. Così come l’idea che anche quelli che sono stati i miei maestri, che mi hanno educato all’ umanità, siano stati uccisi è terribile”. “Provate a immaginare che un decimo delle persone della comunità in cui siete cresciuti siano scomparse in un giorno. Sono le persone che sono state i miei insegnanti, le persone a cui ho insegnato, gli amici”. Ciò che è accaduto lo scorso 7 ottobre è un “evento inimmaginabile”, continua Nadav, che spiega anche come abitare a così poca distanza dal confine, quattro chilometri e mezzo in totale, non avesse mai, in passato, provocato tensione. “Ci siamo sempre sentiti al sicuro. Ovviamente ogni tanto c’erano degli attacchi con i razzi, anche quando ero bambino, ma mai avremmo immaginato tutto questo”. Nadav ricorda l’impegno per la pace dei genitori, così come dei molti palestinesi da loro conosciuti, alcuni dei quali, donne, facevano parte dello stesso movimento pacifista di cui sua madre era una delle leader Women for peace. “E’ Hamas a comandare – conclude Nadav – la gente di Gaza è indebolita e Hamas crea un’immagine di Israele e degli ebrei come di mostri che hanno creato la situazione. E questo non è vero. Hamas sceglie di ricevere denaro e invece di creare infrastrutture, acqua, elettricità e carburante, lo usa per la guerra”. Anche tra i rapiti, aggiunge, c’è chi vuole la pace, e ora sono ostaggio di Hamas.