L’armistizio del ’43, la Santa Sede e l’Italia spezzata

Vatican News

Il ruolo di Pio XII nei giorni che 80 anni fa segnarono una svolta per la Penisola nel secondo conflitto mondiale

di Matteo Luigi Napolitano

«Con l’8 settembre, Roma era diventata una città occupata e la Santa Sede, per propria difesa, insisteva sulla frontiera», indaffarata com’era per varie questioni legate alla quotidiana sopravvivenza. Questa riflessione di Andrea Riccardi nel libro L’inverno più lungo dà la misura dei mutamenti provocati dalla pubblicazione dell’armistizio di Cassibile, firmato il 3 settembre 1943 e pubblicato cinque giorni dopo.

L’otto settembre segnò il disorientamento di una nazione, che si legge bene nella prima comunicazione di Pietro Badoglio. «Nell’assumere il Governo d’Italia al momento della crisi provocata dalla caduta del Regime Fascista – comunicava il presidente del consiglio dei ministri – la mia prima decisione e il conseguente primo appello che io rivolsi al popolo italiano fu di continuare la guerra per difendere il territorio italiano dall’imminente pericolo di una invasione nemica». Questa nebulosa affermazione ci dice che Badoglio non era il “nuovo” e che in più aveva dissimulato con l’alleato tedesco la volontà di continuare a “marciare” fino alla fine. Per quanto tempo ancora i tedeschi avrebbero accettato la farsa? Ancora il 6 settembre 1943 (tre giorni dopo la firma dell’armistizio; due giorni prima della sua divulgazione) la Germania chiedeva all’ ”alleato” italiano di spostare a Viareggio una divisione motorizzata che si trovava a nord della Spezia, «per respingere un eventuale tentativo di sbarco nemico». Il Generale Roatta, capo di Stato Maggiore dell’esercito, aveva accettato a patto che i battaglioni della divisione si distanziassero tra loro di almeno otto chilometri, condizione inaccettabile per i tedeschi; era chiaro che Roatta temeva un colpo di mano nazista sulla Spezia. «Il Signor Rahn [consigliere d’ambasciata tedesco, ndA] dà la sua parola d’onore che il Comando tedesco non nutre alcuna intenzione di colpi di mano del genere». Facile a dirsi, difficile crederci. Dopo varie discussioni, infatti, gli italiani erano arrivati alle seguenti conclusioni: «Il Comando tedesco ha mostrato aperta malafede». È solo un esempio del gioco delle parti consumatosi fra il 3 e l’8 settembre fra i due poli dell’Asse.

L’8 settembre 1943, un’altra sorpresa. Di primissimo mattino Badoglio comunica al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate, che, «a causa dei cambiamenti della situazione, che si è deteriorata, e data l’esistenza di forze armate tedesche nell’area di Roma non è più possibile accettare l’armistizio immediato dal momento che ciò dimostra che la capitale sarebbe catturata con la forza dai tedeschi. L’operazione “Giant 2” [il lancio su aeroporti laziali di una divisione americana di paracadutisti, ndA] non è più possibile dal momento che mi mancano forze per garantire la sicurezza delle aviosuperfici». Aspra la risposta di Eisenhower da Algeri: «Intendo diramare via radio l’accettazione dell’armistizio all’ora originariamente pianificata. Se voi o le vostre forze armate mancherete di cooperare come previamente concordato, diffonderò al mondo intero tutti i documenti su questo affare. Oggi è il giorno X e mi aspetto che voi facciate la vostra parte».

Cedevano intanto le ultime paratie contro l’ira montante di Berlino. «Il Ministro Rahn mi telefona – annotava il Segretario generale degli Esteri, Augusto Rosso, in un suo appunto dell’8 settembre – per segnalarmi una notizia diffusa dalla radio di New York, secondo la quale il Generale Eisenhower aveva informato che era stato firmato l’armistizio con l’Italia e che tutte le truppe italiane avevano deposto le armi. Il Signor Rahn mi ha chiesto che cosa significava tale notizia». Rosso rispose non risultargli nulla di tutto ciò; aveva anche lui sentito la notizia pochi minuti prima da radio Algeri. «Rahn mi ha chiesto che cosa ne pensavo. Ho risposto che credevo si trattasse di una manovra della propaganda nemica».

Com’è noto, le attese di Eisenhower per una collaborazione del governo italiano alla liberazione furono deluse. La storiografia ha ben documentato lo stato di confusione generale regnante a Roma nel momento in cui fu pubblicata la notizia dell’armistizio. Si manifestò in tutta evidenza l’incapacità del governo italiano di onorare gli obblighi concordati con gli alleati, consistenti in primo luogo nella capacità di difendere il territorio italiano dall’ira vendicativa dei tedeschi.

L’abbandono di Roma da parte di Vittorio Emanuele III e del governo Badoglio creò una situazione estremamente drammatica. «L’intero futuro e l’onore dell’Italia dipendono da ciò che le sue forze armate sono ora pronte a fare», dato che «i tedeschi sono definitivamente e deliberatamente entrati in campo contro di voi», aveva scritto Eisenhower. Tutto inutile. La fuga dalla capitale del Re e di Badoglio spinse i romani ad affidarsi all’unico capo di Stato rimasto a Roma: papa Pio XII, un monarca senza divisioni. Sarebbe bastato a difendere la Città eterna e il popolo italiano? «Fra i tiranni tedeschi e le pavide autorità italiane – ha scritto Paolo Monelli nel suo Roma 1943 – i romani s’erano scelto il papa come pastore e come governatore, autorità spirituale e terrena; da lui aspettavano, da lui invocavano resistenza alle prepotenze tedesche, appelli perché cessassero i bombardamenti dall’alto, rifornimenti di viveri, asilo».

A volte non si sottolinea abbastanza questo aspetto “politologico” della missione pontificia e si insiste a relegare Pio XII, il “Papa di guerra”, in una dimensione puramente spirituale e pastorale. E invece è anche importante la dimensione temporale, diremmo quasi “realista”, che Pio XII dovette far propria subito dopo l’armistizio e la fuga del Re e di Badoglio; anche perché la capitale, immediatamente occupata dai tedeschi come quasi due terzi dall’Italia, si era venuta a trovare dalla parte sbagliata dello schieramento. Proprio questa cesura, rappresentata dall’otto settembre, ora più che mai faceva del Vaticano «un attore internazionale sia in politica che in religione», per dirla con Philipp Arceneaux.

Non sorprenderà quindi un episodio, che anticipammo nel volume The Vatican Files, e che ora trova conferma nelle nuove carte sul pontificato di Pio XII. Nell’intervallo tra l’armistizio e la sua pubblicazione, esattamente il 6 settembre 1943, il Segretario di Stato vaticano Maglione pensò di convocare nei sacri palazzi tutti i cardinali allora presenti a Roma per uno scambio d’idee sulle questioni italiane; questo perché, due giorni prima che venisse reso pubblico, la Santa Sede era stata informata della conclusione dell’armistizio. Era quindi intenzione di Maglione interporre in favore dall’Italia i buoni uffici vaticani presso gli alleati, e anche prepararsi a reggere gli effetti di una più che probabile reazione tedesca al “tradimento” italiano.

In quella riunione di cardinali del 6 settembre 1943 (lo si legge nel verbale redatto da Tardini) si parlò della situazione italiana, assai preoccupante per il vuoto di potere creatosi nella capitale. Proprio per la delicatezza del momento si concordò di vietare al clero di occuparsi della situazione politica interna nei vari Stati. Una lunga postilla di Tardini senza data (ma scritta certamente dopo la liberazione di Roma, avvenuta il 4 giugno 1944) avvertiva che il verbale della riunione era stato «addomesticato perché non cadesse in mani non amiche». In altre parole, in Vaticano si era certi che, al momento della pubblicazione dell’armistizio di Cassibile, i tedeschi non avrebbero esitato a occupare l’Italia e persino il Vaticano, facendo prigioniero Pio XII e impadronendosi degli archivi. Era questo il fulcro delle preoccupazioni vaticane, ma si era deciso di non metterle nero su bianco.

Dal 9 settembre 1943 Roma si apprestava a vivere tempi drammatici, contraddistinti dalla fulminea occupazione tedesca di buona parte del suolo italiano. Inutile ogni difesa armata. Il Cardinal Maglione fece diramare alla Guardia Svizzera l’ordine di non far uso di armi da fuoco. Alle ore 11,00 di quello stesso 9 settembre fu decretata la sospensione delle udienze generali del mercoledì (sostituite da udienze private). A Roma non c’erano più i quadri di comando; dal ministero degli esteri Augusto Rosso aveva fatto sapere alla Segreteria di Stato «che il Re, Badoglio e tutti i Ministri sono fuggiti da Roma»; e faceva «chiedere se il Santo Padre fosse disposto a rivolgere un appello al comando tedesco», al fine di por termine agli spargimenti di sangue. Dal comando supremo italiano, invece, si pregava il Papa di intervenire per «affrettare l’arrivo degli anglo-americani».

I tedeschi stavano intanto avanzando. Una prima divisione germanica sarebbe entrata a Roma già il 10 settembre. Era l’inizio di un lungo calvario che avrebbe afflitto per molti mesi la popolazione italiana, e in particolar modo gli ebrei. Come si legge in un promemoria segreto della sezione ginevrina del Congresso Mondiale Ebraico del 16 febbraio 1944, «la situazione peggiorò notevolmente dopo il 15 settembre [1943, ndA] quando numerosi distaccamenti delle SS arrivarono in Italia e istituirono uffici speciali della Gestapo» che procedettero ad arresti indiscriminati e arbitrari, senza promulgare speciali ordinanze. «È necessario precisare – si legge sempre in questo documento segreto – che tutti i funzionari italiani, inclusi quelli di polizia con poche eccezioni, si comportarono in una maniera molto corretta, favorevole agli ebrei. Lo stesso può dirsi della stragrande maggioranza della popolazione, che molto generosamente diede assistenza e aiuto ogni volta che fu possibile».

Certamente non sempre l’aiuto dato dagli italiani agli ebrei e ad altri rifugiati si rivelò efficace, soprattutto per la condotta dei tedeschi sia nei confronti della Santa Sede (che da Roma gestiva la sua rete di assistenza, ospitando ricercati a vario titolo persino nelle mura vaticane), sia verso gli “alleati” della Repubblica di Salò. La ragione di ciò si legge nel promemoria segreto: «La posizione degli ebrei in Italia settentrionale è al momento la stessa di ogni altro Paese occupato dalla Germania», se non peggiore. «In Italia, dagli eventi del 7 settembre, praticamente non esiste alcuna autorità governativa, e tutte le decisioni sono prese per diretto ordine delle autorità di occupazione tedesche. Inoltre, per la Germania, l’Italia è il peggior territorio nemico, avendo commesso tradimento agli occhi dei tedeschi». La tragedia era acuita dal fatto che i tedeschi avevano proceduto alla «abrogazione della precedente legislazione razziale fascista, e all’applicazione delle leggi di Norimberga». Dunque, niente discriminazione in base alla conversione al cattolicesimo o ad altri requisiti; per le leggi naziste nessun ebreo poteva esser trasformato in “ariano”.

Oltre a ciò, il promemoria segreto ebraico informava che in Italia i tedeschi avevano proceduto alla «abolizione del diritto di asilo nei conventi e in altre istituzioni ecclesiastiche». Al Congresso Mondiale Ebraico era giunta notizia che «numerosi ebrei, specialmente donne, avevano trovato asilo in monasteri e conventi» e che «più di 200 donne ebree furono arrestate in un convento vicino Firenze e in altre località».

Iniziava l’ “inverno più lungo”. Dopo l’8 settembre 1943 sembrò a molti che non ci fosse più l’Italia, né legge, né tradizioni, né usanze a ricordarne i fasti. La vendetta nazista contro l’armistizio italiano aveva cancellato ogni cosa. Il futuro della nazione avrebbe a lungo risentito di questo lungo oblio dell’umanità; oblio che tuttavia non avrebbe, alla fine, impedito il riscatto.