Presentato questa mattina nello Spazio Cinematografo della Fondazione Ente dello Spettacolo nella rassegna veneziana, un estratto del documentario “The dreamers”, con le voci, ma non i volti, nascosti per sicurezza, della coordinatrice di un centro educativo clandestino nel Nord dell’Afghanistan sotto il regime talebano, di insegnanti e studentesse. Le testimonianze dell’autrice, Lucia Capuzzi di Avvenire, e della giovane migrante afghana Fatima Haidari
Alessandro Di Bussolo – inviato al Lido di Venezia
Il sapere e la conoscenza non si possono fermare, anche se a bloccarle, per le giovani afghane di più di 12 anni, è il regime dei talebani. Anche in una “prigione per le donne” come è diventato da due anni il Paese asiatico, dopo la presa del potere degli “studenti” fondamentalisti, se ci sono comunità che resistono e che sostengono la nascita di scuole clandestine, nelle case e nei villaggi. Lo racconta il documentario “The Dreamers, la resistenza delle donne afghane”, realizzato da Lucia Capuzzi, inviata di Avvenire, e dal regista Alessandro Galassi, inserito nel progetto “Avvenire per donne afghane” che è stato presentato in anteprima allo Spazio Cinematografo della Fondazione Ente dello Spettacolo, alla 80.ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
La maggioranza degli afghani vuole l’istruzione per le ragazze
Senza mostrare il suo volto, per ragioni di sicurezza, la coordinatrice del centro educativo clandestino che fa studiare duemila ragazze e giovani afghane, nel nord del Paese, in quattro sedi, sottolinea, nell’estratto proiettato a Venezia, che le famiglie locali, in maggioranza, vogliono educazione per le proprie figlie, e invita le donne afghane “a non perdere la speranza, perché l’istruzione è un diritto fondamentale”. Insieme a lei alcune ragazze che una volta conclusi gli studi nel centro, insegnano alle più piccole, e anche giovanissime studentesse. Il documentario, nella versione completa di 18 minuti, sarà pronto in autunno.
Capuzzi: microspazi di libertà protetti dalle comunità locali
Le voci raccolte da Lucia Capuzzi, per la giornalista “dimostrano che le donne afghane non sono disposte a farsi cancellare, cercano micro spazi di autonomia e libertà” e li trovano grazie al sogno di un operatore umanitario e al suo radicamento nelle comunità. Con le ragazze del centro educativo, ha spiegato l’inviata di Avvenire, “abbiamo realizzato anche un mini laboratorio di giornalismo, che sta proseguendo online, grazie all’entusiasmo delle ragazze”. Questa la sua presentazione del documentario a Vatican News.
Perché dopo due anni dalla presa del potere dei talebani è importante non spegnere i riflettori sulla situazione delle donne in Afghanistan?
Perché le donne in Afghanistan, nonostante un regime che cerca di farle scomparire, cancellare letteralmente dalla scena pubblica, stanno combattendo in modo non violento, creativo e straordinario una battaglia per i loro diritti ma che sono anche i nostri. Il sogno dei talebani è una società monogenere, dove ogni differenza è annullata. Queste donne ci ricordano che la società vera è una società plurale, bella e stanno realizzando qualcosa che ha molto da dire e insegnare anche a noi.
Spiegaci qual è il progetto di questa associazione umanitaria, di cui non possiamo dire il nome, che però sta realizzando un piccolo grande sogno nella zona periferica dell’Afghanistan, protagonista del vostro documentario?
Sì è un’associazione locale che è stata creata grazie a un operatore umanitario che ha radunato i suoi ex allievi, perché lui lavorava lì già nei vent’anni della Repubblica. Insieme riescono, grazie al sostegno della comunità locale, in particolare del Consiglio degli anziani, che è un’autorità che anche i talebani rispettano, a realizzare dei centri educativi in cui i ragazzi ma anche le ragazze possono imparare inglese, informatica e adesso anche matematica e scienze. Al momento studiano nel centro principale che si trova nel nord dell’Afghanistan, 900 ragazze, ma in totale sono coinvolte in duemila. E poi ciascuna di loro, quando termina il corso avanzato, insegna nei propri villaggi per restituire alle bimbe dei propri villaggi il sapere che ha appreso.
Quindi con questo documentario, che presenterete al 29.mo MedFilm Fest di Roma, dal 9 al 19 novembre, Avvenire, tu personalmente, e il regista, cercate di non spegnere questi riflettori e di far capire che c’è ancora speranza?
C’è speranza, ce lo dicono loro e ce lo gridano loro. Le afghane sono delle lottatrici, delle sognatrici. Non hanno perso la speranza in una situazione in cui ci sarebbe da perderla. Continuano a lottare e ci insegnano che dobbiamo continuare a lottare tutti perché davvero i diritti umani non restino sulla carta. E c’è sempre, anche nelle situazioni più difficili, una possibilità di speranza, una piccola luce.
Il regista: colpito dalla resilienza delle ragazze afghane
Il regista Galassi, film maker specializzato in documentari sull’America Latina ha raccontato di essere rimasto colpito “dalla resilienza e la forza delle ragazze afghane”. In collegamento con Spazio Cinematografo alla Mostra di Venezia, dal Nord dell’Afghanistan, l’operatore umanitario, la coordinatrice del centro e alcune insegnanti e studenti, hanno ricordato il motto della loro esperienza clandestina: “Ognuno può insegnare a qualcun altro”.
Fatima: donne prigioniere che non rinunciano a combattere
La coordinatrice, in particolare, ha ricordato che l’attività del centro è iniziata nel 2019, prima del ritorno dei talebani, e continua nonostante il regime. Da poco ad inglese e informatica “abbiamo aggiunto lezioni di matematica e scienze”. Molte ragazze vengono istruite nelle case “e poi in tante che terminano i corsi avanzati insegnano alle ragazzine nei loro villaggi”. Allo Spazio Cinematografo ha portato la sua testimonianza Fatima Haidari, 25 enne originaria di Herat, di etnia hazara, in Italia da 2 anni, che è dovuta fuggire perché come guida turistica donna “era un target per i talebani”, ha sottolineato Capuzzi. Fatima, che oggi vive a Milano e studia all’Università Bocconi Scienze politiche internazionali. ha partecipato alla campagna “Avvenire per donne afghane”, e la sua storia è del libro appena pubblicato da Vita e Pensiero “Noi afghane”. Ecco la sua testimonianza a Vatican News.
Dall’Italia, come vede la situazione delle donne nel suo Paese? Ha parlato di una “prigione”, per sua madre, le sue sorelle, e le donne afghane…
Conosco l’Afghanistan come una prigione per le donne. E credo che questo sia un termine corretto per descrivere la situazione delle donne. Una prigione è un luogo in cui non si può fare nulla se non rimanere bloccati. Così si viene anche torturati mentalmente. Ad esempio, il numero di malattie mentali è in aumento, i suicidi sono in aumento, i matrimoni precoci sono in aumento. Conosco tante donne che sono state arrestate dai talebani, sono prigioniere e vengono torturate. E’ un Paese in cui le scuole, le università e gli uffici di collocamento sono chiusi. L’Afghanistan ha più di 40 milioni di abitanti, e metà loro, più di 20 milioni di persone, sono donne. Quindi il 50% della società è completamente cancellato, eliminato dalla possibilità di esercitare i propri diritti e di vivere la vita di un essere umano.
Ma vede anche semi di speranza, come l’esperienza delle donne nel nord del Paese, descritta nel documentario “The Dreamers”?
Beh, sì, decisamente. Siamo prigioniere, ma cerchiamo comunque di combattere dalla prigione. Le donne afghane sono le più coraggiose del mondo. E credo che nessuna donna meriti di essere apprezzata quanto le donne afghane che stanno ancora combattendo in Afghanistan. Sotto le regole restrittive dei talebani, rischiano di essere uccise e torturate. Ma nonostante ciò, combattono. Le donne afghane hanno scelto di combattere protestando, molte di loro sono state arrestate durante le proteste, ma anche con l’istruzione nascosta o segreta, come nel video che abbiamo visto. Ma questo sta accadendo in tutto l’Afghanistan. E credo che sia l’unico modo che possono usare per sfidare i talebani e avere speranza per il futuro. In fondo, anche prima dei talebani l’istruzione era un modo per liberarsi dalle restrizioni e dalle aspettative della società, per evitare i matrimoni precoci e la violenza domestica. E penso che in qualche modo ora sia lo stesso. E’ segreto, è più pericoloso, ma è meglio che stare seduti e non fare nulla per loro.
E da qui, dall’Italia, quale aiuto può dare a sua madre, le sue sorelle e alle donne che vivono in Afghanistan?
Per quanto riguarda la mia famiglia, l’unica cosa che posso fare è dare loro un po’ di speranza, e aiutarli un po’ dal punto di vista finanziario. Per quanto riguarda le altre donne, posso partecipare a conferenze come questa. È difficile per me parlare perché devo sempre ricordare tutto quello che mi è successo. Ma mi piace perché così creo consapevolezza. Questa è una delle cose che posso fare. E la seconda cosa è come quella del documentario, un’educazione clandestina. Sto collaborando con associazioni segrete in Afghanistan, aiutandole a raccogliere fondi attraverso molti amici. E con le interviste che ho rilasciato a giornalisti e media.
Un aiuto è anche la sua formazione in Italia, e l’impegno come guida turistica virtuale…
Sostengo le donne afghane anche facendo tour virtuali, attraverso il sito web “Untamed borders”, con la pubblicità che raccogliamo. Grazie alle persone che partecipano e sostengono me e le donne afghane, metà del denaro raccolto è per loro. Per gli insegnanti, i miei amici che si occupano dell’istruzione segreta per le ragazze.