Mongolia, padre Viscardi: il Papa nella nostra “baby Chiesa” aperta al futuro

Vatican News

Il missionario della Consolata, da 19 anni nel Paese asiatico, descrive l’evoluzione della comunità mongola, rinata dopo il crollo del comunismo grazie ai primi missionari che si rivolgevano ai bambini nei tombini. “La sfida adesso è di recuperare la pastorale e formare personale locale, come in Africa. Meno missionari più mongoli”. Sulla visita del Papa iniziata oggi: “Un momento speciale… In cattedrale faremo una foto insieme, per la prima volta una Chiesa intera entrerà tutta in una foto”

Salvatore Cernuzio – inviato a Ulaanbaatar (Mongolia)

Diciannove anni dei suoi 72, padre Ernesto Viscardi li ha trascorsi in Mongolia. Altri sedici in Africa. Una vita di missione per questo sacerdote bergamasco dei Missionari della Consolata, prima Congregazione ad aver assistito alla rinascita della Chiesa mongola dopo la transizione democratica del Paese seguita al crollo comunista degli anni ‘90. Padre Ernesto è stato uno dei primi missionari italiani arrivati intorno al 2003 per ascoltare i vagiti di quella che monsignor Wenceslao Padilla, primo prefetto apostolico di Ulaanbaator, definiva una “baby Church”, una Chiesa bambina. Una Chiesa ora circoscritta nei numeri ma grande nelle opere, che Papa Francesco incontrerà a partire da oggi, 1° settembre, durante il viaggio apostolico in Mongolia. A colloquio con Vatican News, Padre Ernesto guarda alle sfide future: adesso, dice, c’è bisogno di fare uno “scatto” e passare dall’impegno sociale a quello pastorale. “E magari diventare non una Chiesa di missionari, ma una Chiesa interamente mongola”.   

Ascolta l’intervista al missionario padre Ernesto Viscardi

Padre Ernesto, torniamo indietro nel tempo: lei ha visto i primi passi di questa Chiesa “bambina”. Che tipo di evoluzione c’è stata dall’arrivo dei primi missionari e quale tipo di contribuito è riuscita a dare la Chiesa negli ultimi trent’anni nel tessuto sociale della Mongolia?

I primi missionari sono arrivati nel ’92, quando questo Paese si apriva alla democrazia dopo i settant’anni di comunismo. Era un momento in cui la Mongolia era ancora molto “pacioccona”, molto tranquilla, una nazione che viveva alla giornata con tutte le sue realtà, la sua storia, ecc. Poi, tutto d’un colpo, in quegli anni si sono scoperte le famose miniere nel deserto del Gobi e quindi una grande ricchezza; questo ha accelerato il movimento economico e il progresso del Paese, che ha cominciato a organizzarsi per essere un po’ indipendente dal punto di vista economico e politico. Cosa che richiedeva un certo impegno, perché passare da un sistema socialista a un sistema democratico e a un sistema di economia globale è un passo molto alto. Quindi sono stati anni duri, di pari passo con l’epopea della fine della Russia, e si pensava che anche qui tutto crollasse. C’è stata invece una ripresa e in quegli anni sono arrivati i primi tre missionari, tra cui monsignor Padilla che è stato il padre della Chiesa mongola. Era una Chiesa degli inizi, anzi una Chiesa che doveva ancora nascere. Si stava partorendo la Chiesa in Mongolia in qualche maniera.

Cosa ha fatto quel primo drappello di missionari?

Si sono chiesti: che si fa? Da dove cominciamo? Con chi lavoriamo? Chi c’è? Niente, nessuno. Hanno iniziato guardandosi attorno e girando per la città hanno visto ragazzi per le strade e bambini che vivevano nei tombini, dove passano i grandi tubi del riscaldamento della città, per sopravvivere all’inverno. Si son detti: beh, perché non cominciamo da loro? Da lì è iniziato, tutto, dai tombini.

Poi sono arrivate altre congregazioni…

Sì ed è iniziata l’attività prima di tutto sociale dalla Chiesa che ha cominciato a crescere. Sono arrivati i salesiani, le suore coreane, sono state aperte scuole, asili e centri per i ragazzi, le suore di Madre Teresa con gli anziani e così via. L’attività della Chiesa si è così allargata al punto che oggi dei 77 missionari presenti in Mongolia, due terzi sono impegnati nel sociale a tempo pieno. Il cardinale Giorgio (il prefetto apostolico Marengo, ndr), nostro collega della Consolata, sta spingendo però ad un passaggio fondamentale: ci siamo impegnati nella carità che è una cosa importante, dice, ma è più importante ora che ci apriamo a quello che è il nostro specifico, la pastorale, l’annuncio del Vangelo, il farsi conoscere come comunità cristiana attaccata al Signore e guidata dallo Spirito. Questo, credo, che sarà la priorità per i prossimi anni.

Dunque il punto di maturazione di questa Chiesa che abbiamo definito “bambina” Dopo trentun anni si può ancora considerarla tale?

C’è stato un cambiamento ma certamente è ancora una comunità molto ridotta: 1500 battezzati, come sempre si dice. Non fanno un grande colpo ma non bisogna guardare al numero bensì alla qualità. E su questo ci sono stati passi importanti, prima di tutto con la consacrazione di due sacerdoti locali, poi sono cresciute le persone formate dalla Chiesa, quindi i catecumeni che hanno ricevuto il Battesimo e il numero degli animatori a tempo pieno nelle nove parrocchie dentro e fuori città. Io stesso sto lavorando a formare mongoli quindi oggi abbiamo un buon numero di cristiani cattolici battezzati impegnati, formati, chi nelle Filippine, chi in Corea o anche in Italia.

Quali sono le prospettive per il prossimo futuro?

Come anche il cardinal Giorgio insiste sempre, dobbiamo recuperare una parte spirituale della nostra attività. Abbiamo lavorato tanto nel sociale e siamo degli ottimi organizzatori, come sempre tutti i missionari, ma io penso che l’Asia per sua natura ci richiede una presenza di esperti di Dio, più che di grandi organizzatori. Lo dice sempre pure Papa Francesco. Cioè qui uno si gioca qui come persona, non tanto come ruolo o come attività, ma come persona stessa. Quindi il futuro sarà certamente un recupero dell’annuncio, dell’accompagnamento spirituale, della formazione delle comunità cristiane. Poi dovremo preparare il personale locale, come avvenuto in Africa. Chi ha evangelizzato l’Africa? I missionari, certo, ma anche i catechisti, la gente locale, e lo stesso si dovrà fare qui. Se noi vogliamo progettare una Chiesa che abbia il senso della Mongolia, deve essere fatta da mongoli. Insomma, meno missionari e più mongoli.

Guardiamo al futuro ma non dimentichiamo il passato, per decenni sotto il regime comunista, come detto, ma che anche, tornando ancora più indietro nei secoli, affonda le sue radici nell’impero di Gengis Khan. Questo bagaglio ha avuto e ha ripercussioni sulla costruzione dell’identità religiosa in Mongolia?

Settant’anni di comunismo che ha cercato di annullare una memoria storica e religiosa senza mai riuscirci, sono rimasti per tanto tempo nel sottofondo immaginario della gente. Quando negli anni ‘90 è iniziata la storia della nuova Mongolia, bisognava cercare degli elementi di identità. E quali potevano essere? Prima di tutto, Gengis Khan, che è il fondatore della patria e un po’ la gloria di questo Paese. Il secondo aspetto era quello religioso, quindi il recupero del buddismo come elemento di identità nazionale. La terza cosa, il territorio e la quarta, tutte le tradizioni: da quelle più semplici, come i ruoli sociali, alle grandi celebrazioni, le mille liturgie per la nascita e la morte, le feste nazionali ecc. Così il Paese che ha cercato di recuperare una sua identità attraversi dei simboli che già lo definivano prima e che continuano a definirlo ancora oggi.

In tutto questo contesto, l’arrivo del Papa oggi quale significato ha?

È stato soprattutto una grande sorpresa. Vi immaginate sapere che il Papa, il pastore di non so quanti milioni di cattolici, sarebbe venuto a visitare una Chiesa di 1500 fedeli? Sorpresa, gioia e gratitudine, penso che siano le parole che definiscono questo viaggio. Siamo tutti un po’ emozionati… Cosa ci porta ora il Papa? Ci porta la sua persona e la persona di Francesco è uno stile, quello della semplicità, della vicinanza alla gente nelle famose periferie – e questa è una Chiesa di periferia -, l’impegno per la pace. A noi cattolici della Mongolia il Papa porta poi un messaggio, dice: voi siete pochi, ma è importante la vostra testimonianza, la vostra vita come segno della Chiesa presente. Certamente parlerà anche di dialogo interreligioso perché siamo una minoranza dentro la tradizione del buddismo tibetano tantrico. Infine il Papa non si dimenticherà – perché sta nel suo cuore – di chiederci di pregare ed impegnarci per la pace.

Sarà comunque una visita molto “familiare”, cioè non ci saranno le grandi folle per strada che normalmente si vedono quando il Papa visita un Paese. Ci sono piccoli gruppi sparsi qua e là che saluteranno il Santo Padre. Però, ripeto, sarà una visita molto a livello di famiglia: pensate che il 2 settembre, quando al pomeriggio andremo nella cattedrale, faremo una foto tutti insieme col Papa. L’unica Chiesa che entra tutta in una foto. Straordinario!