Su L’Osservatore Romano un articolo rievoca il ruolo giocato 80 anni fa dal Vaticano nelle complesse trattative del 25 luglio 1943
di Matteo Luigi Napolitano
Il bombardamento di Roma, il 19 luglio 1943, era stato aspramente condannato da Pio xii . Roma era stata violata nelle sue cose più sacre. Anche il governo italiano aveva le sue colpe, non avendo spostato i comandi militari fuori dell’Urbe, così come aveva promesso.
Ma nuovi drammi si profilavano in quella tragica estate romana. La mattina del 25 luglio 1943 il Segretario della Congregazione di Propaganda Fide, Celso Costantini, pregò il Sostituto della Segreteria di Stato, Giovanni Battista Montini (il futuro Paolo vi ) di andarlo a trovare «per un affare grave e urgente». Ad attendere Montini c’era Alberto De Stefani, economista e cattedratico, accademico d’Italia, ex ministro delle finanze del governo fascista e membro del Gran Consiglio del Fascismo. De Stefani si era recato da Costantini alle sette del mattino, dopo la drammatica seduta del Gran Consiglio, iniziata alle ore 17,00 del 24 luglio 1943. Alle due del pomeriggio del 25, «dopo discussione assai animata ed obbiettiva, sostenuta particolarmente da Grandi e da Federzoni», era stato votato un ordine del giorno auspicante il ritorno allo Statuto Albertino e al rispetto dei ruoli che esso riservava agli organi costituzionali; in secondo luogo, l’ordine del giorno chiedeva che il Re d’Italia riassumesse il comando militare. «Alla seduta — si legge negli appunti di Montini — era presente il Capo del Governo, che ha mostrato di non avere più il controllo della situazione, né di sé stesso». Per Mussolini il Re avrebbe dovuto respingere l’ordine del giorno di Grandi, «perché nessun fatto nuovo era intervenuto di natura tale da togliere al Re la fiducia in lui, che era, se mai, un generale sfortunato; che se il Re lo avesse invece accettato avrebbe posto il Capo del Governo nella condizione di lasciare il suo posto». L’ordine del giorno Grandi era stato votato con soli sette voti contrari su 27, un astenuto e un voto su altra mozione. Mussolini, il «generale sfortunato» doveva quindi lasciare il suo posto di comando.
È interessante notare che i congiurati avevano inviato al Vaticano, quel 25 luglio di primo mattino, l’ordine del giorno Grandi, la lista dei presenti alla seduta del Gran Consiglio, e l’indicazione dei voti espressi individualmente. Tali documenti, debitamente protocollati, furono acquisiti dalla Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari.
Secondo De Stefani, provocata la crisi di regime, si sarebbe dovuto aprire una trattativa con i tedeschi per consentire «tranquillamente» all’Italia di tornare neutrale; ma si sarebbe dovuto aprire una trattativa anche con gli alleati «per sapere quale trattamento riserverebbero all’Italia nel caso che uscisse dal conflitto», evitando così l’occupazione militare completa dall’Italia e accettando che tornasse neutrale. De Stefani anzi pensava che la Santa Sede potesse intervenire a Washington e a Londra per conoscere le condizioni per l’uscita dall’Italia dalla guerra.
Montini rispose che la Santa Sede non poteva fare alcun passo «se non invitata da organi ufficiali dello Stato». De Stefani insistette: nulla di ufficiale; si trattava solo di sondare le intenzioni degli Alleati verso l’Italia. «Bisognerebbe evitare l’occupazione militare completa; si dovrebbe naturalmente giungere al disarmo, ma le si dovrebbe concedere di ritornare in una posizione neutrale». Si sarebbe potuto inviare un emissario presso gli alleati. Di fronte a queste irrealistiche pretese Montini replicò che le intenzioni degli alleati erano già ben note, né risultava una richiesta ufficiale italiana per un intervento della Santa Sede. De Stefani chiese a Montini d’informare comunque di tutto Maglione e il Papa. Probabilmente anche Luigi Federzoni e Dino Grandi (due dei maggiori congiurati) avrebbero contattato il Vaticano.
La caduta di Mussolini ingenerò molti timori per il futuro. Arrestato all’uscita da Villa Savoia, dopo l’udienza con il Re che ne aveva accettato le dimissioni, il “duce” era stato prelevato da un gruppo di Carabinieri con un’ambulanza e condotto in una scuola allievi nel quartiere di Prati. Il 26 luglio 1943, dal ministero degli esteri italiano partiva la seguente circolare telegrafica per le rappresentanze all’estero: «Vogliate recarvi da codesto Ministro degli Affari Esteri e comunicargli che Sua Maestà il Re e Imperatore ha oggi accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato, presentate da S. E. il Cavaliere Benito Mussolini, ed ha nominato Capo del Governo Primo Ministro Segretario di Stato S. E. il Cavaliere Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Con telegramma a parte si trasmette a V. E. (V. S.) testo dei proclami indirizzati agli Italiani da Sua Maestà il Re e Imperatore e dal Capo del Governo. Richiamo vostra attenzione sul fatto che Italia mantiene con immutata volontà sua posizione e sua politica nell’attuale conflitto».
Nella versione inviata a Berlino, Budapest e Bucarest, dopo la parola “conflitto” veniva aggiunta la frase «mettendo rilievo ferma decisione del Governo italiano di proseguire con tutti i mezzi la guerra a fianco dei propri alleati».
In Segreteria di Stato si pensò al da farsi. Da «persona amica» Maglione fece pregare il capo della Polizia, Carmine Senise, affinché desse «precise istruzioni per la sicurezza della povera donna Rachele Mussolini, che sembra essere in ansia per la sua incolumità». Ciano era ancora libero ma non usciva di casa. Roberto Farinacci, rifugiatosi a Villa Wolkonsky (sede dell’ambasciata tedesca in Italia) aveva chiesto ai tedeschi di essere portato immediatamente in Germania; ed era fuggito la notte del 26 luglio travestito da aviatore tedesco. «Si teme che egli influisca sinistramente sull’animo del Cancelliere», chiosava il Segretario di Stato vaticano, il quale temeva fosse occupata dai tedeschi «qualche città dell’Alta Italia o addirittura la linea del Po». Succeduto a Mussolini, Badoglio aveva impartito ordini severissimi di reprimere qualsiasi manifestazione antitedesca. «La guerra continua» era l’enigmatico e velleitario motto del nuovo primo ministro italiano. Intanto, in Vaticano Ernst Von Weizsäcker era ambasciatore tedesco da meno di un mese; Roma era un esilio sgradito all’ex numero due del ministero degli esteri nazista. All’indomani della seduta del Gran Consiglio von Weizsäcker andò da Maglione per avere informazioni sulla situazione politica italiana. L’ambasciatore chiese, «in suo nome personale e in tutta confidenza» se l’Italia avrebbe compiuto dei passi, e che cosa avrebbe fatto la Santa Sede. Maglione disse di sapere ben poco della seduta del Gran Consiglio «perché ieri non venne da me quasi nessuno che potesse darmi notizie né io ho creduto di poter chiamare, il primo giorno dopo la costituzione del nuovo governo, persone che avessero o mi dessero notizie esatte». Ovviamente le affermazioni di Maglione non rappresentavano fedelmente la realtà dei fatti. Weizsäcker voleva anche sapere che cosa il cardinale pensasse delle parole di Badoglio («la guerra continua»). Avendo appena avuto il Vaticano contatti con i congiurati del 25 luglio, Maglione fu molto cauto: «Ho osservato che l’Italia dimostra di voler procedere d’accordo con la Germania anche se ha intenzione di fare qualche passo per la cessazione delle ostilità, il che non mi consta». L’ambasciatore tedesco riformulò la domanda: che intenzioni aveva la Santa Sede? «Ho detto — è sempre il cardinal Maglione a parlare — che la S. Sede desidera, e non da ieri o da oggi, sinceramente e fervidamente una pace giusta, equa e duratura, ma non può offrirsi come mediatrice se non è pregata da una almeno delle due parti in conflitto. Ora da nessuna di esse la S. Sede è stata invitata a interporsi: né l’Italia, né la Germania, né gli Anglo-sassoni hanno manifestato simile desiderio». A un passo autonomo del Vaticano gli anglosassoni avrebbero del resto reagito ribadendo la formula della “resa incondizionata”, mentre Italia e Germania avrebbero potuto replicargli: «Chi vi ha pregato di provocare tali dichiarazioni?». L’ambasciatore tedesco convenne con Maglione sul punto, affrettandosi a dire: «Io credo che il mio Governo non domanderà la pace». E la conversazione personale e confidenziale fra i due si chiuse là.
Un’appendice al 25 luglio 1943 va raccontata. Come già detto, nell’«afa pesante» e sotto il «cielo immobile» di Roma Mussolini presentò le dimissioni al Re. All’uscita da Villa Savoia, alle ore 17,20, tre ufficiali dei Carabinieri, Giovanni Frignani, Raffaele Aversa e Ugo De Carolis, sotto la guida del generale Angelo Cerica, presero in consegna Mussolini, ufficialmente per la sua “protezione”, trasferendolo in una caserma dell’Arma.
Poche settimane dopo, il 7 ottobre 1943, nella Roma occupata dai nazisti i tre ufficiali avrebbero fondato il Fronte Clandestino di Resistenza dei Carabinieri, in contatto con la Resistenza romana e con il Comando Carabinieri dell’Italia Meridionale. Ai carabinieri Aversa, De Carolis e Frignani, i tedeschi invasori avrebbero dato la caccia come rei dell’arresto di Mussolini. Sarebbero stati scoperti dalla Gestapo il 23 gennaio 1944 nel pieno di una riunione clandestina in casa di una cittadina tedesca, Elena Hoehn. Furono condotti nella prigione di Via Tasso e fatti oggetto di interrogatori, sevizie e torture, perché dessero i nomi della rete della resistenza romana. Elena Hoehn, cittadina tedesca, fu scagionata dall’accusa di aiuto alla Resistenza, ma intercedette invano per i tre presso il comando germanico.
Falliti i suoi tentativi, la Hoehn chiese udienza al Papa, che la ricevette privatamente: «Piena di commozione mi prosternai ai Suoi piedi — scrive nelle sue memorie —. Egli mi invitò ad alzarmi e, tutti e due soli, uno di fronte all’altro, ascoltò attentamente quanto ebbi a raccontargli. Non Gli nascosi nulla, né la permanenza del Col. Frignani in casa nostra, né le sue attività, né la cooperazione che avevo dato loro all’insaputa di mio marito, né il nostro arresto. E mi appellai alla Sua paterna protezione, onde volesse venire in aiuto dei tre ufficiali». Pio xii si immedesimò subito nella vicenda. «Mi chiese i nomi dei tre ufficiali che avrei dovuto fargli avere nei prossimi giorni per iscritto e mi promise il Suo personale intervento», narra sempre la Hoehn, che il 22 febbraio 1944 comunicò per lettera al Papa i nomi dei tre Carabinieri. Montini accusò ricevuta della lettera il 7 marzo 1944. «Per venerata disposizione di Sua Santità — si legge nella risposta — ripetuti passi sono stati fatti nel senso da Lei desiderato e non si mancherà di seguire la pratica, per quanto è possibile nelle presenti difficili circostanze».
Alle cinque del pomeriggio del 23 marzo 1944, Elena Hoehn con la moglie di Frignani, Lina, erano in via Tasso, sperando di liberare i prigionieri. Stazionava davanti alla prigione nazista un’auto con targa vaticana; vi era a bordo padre Pancrazio Pfeiffer, Superiore Generale dei Salvadoriani e “diplomatico ufficioso” di Pio xii , al corrente di tutta la vicenda. Si sperava dunque per il meglio quando giunse la notizia dell’attentato a via Rasella. La prigione di via Tasso divenne per tutti inaccessibile; i suoi prigionieri divennero il prezzo della vendetta. L’ordine di rappresaglia giunse direttamente da Hitler: uccidere dieci prigionieri italiani per ognuno dei trentadue soldati tedeschi morti a via Rasella. Aversa, De Carolis e Frignani, i tre ufficiali che avevano arrestato Mussolini, e per i quali Pio xii era intervenuto, avrebbero trovato il martirio con i loro compagni di cella alle Fosse Ardeatine.