L’eredità di Casaroli: la pace è disarmo politico e morale prima che bellico

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A venticinque anni dalla morte del porporato, segretario di Stato per 11 anni durante il pontificato di Giovanni Paolo II, L’Osservatore Romano ripubblica un suo articolo del febbraio ’89. Una riflessione molto attuale, tra urgenza di dismettere le armi e il “nobile e doveroso” lavoro per un mondo più giusto

L’Osservatore Romano

Venticinque anni fa, il 9 giugno 1998, moriva il cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato tra il 1979 e il 1990. Esperto diplomatico, appassionato tessitore di rapporti di pace fra le Nazioni, capace di compiere passi coraggiosi e significativi per migliorare in particolare la situazione della Chiesa nell’est europeo, fu stretto collaboratore di Giovanni  xxiii, Paolo vi e Giovanni Paolo ii. Il cardinale Casaroli  «faceva la grande diplomazia — il martirio della pazienza, così era la sua vita — insieme alla visita settimanale a Casal del Marmo, con i giovani detenuti in un carcere minorile di Roma, dove era chiamato “Don Agostino”»: con queste parole Papa Francesco ne ha tracciato il profilo,  il 27 agosto 2022, durante il Concistoro per la creazione di nuovi cardinali. Per ricordare il porporato piacentino  — nato il 24 novembre 1914 a Castel San Giovanni ed entrato nel 1940 in servizio nella Segreteria di Stato —  pubblichiamo ampi stralci di un testo di grande attualità: l’intervento svolto alla Conferenza per il disarmo svoltasi a Ginevra il 21 febbraio 1989, tratto da «L’Osservatore Romano» pubblicato con la data del giorno seguente.

di Agostino Casaroli

La questione del disarmo è giustamente vista come strettamente collegata a quella della pace: più gli Stati si armano, più aumentano i pericoli di conflagrazioni, che trovano nelle armi, appunto, come il proprio nutrimento; più gli arsenali bellici diminuiscono, meno esca viene data al desiderio o alla tentazione di servirsene.

Questa spontanea percezione si scontra con un’antica e ben radicata convinzione, efficacemente tradotta dall’antico detto latino: «Si vis, pacem, para bellum», se vuoi la pace, prepara la guerra. Cioè àrmati; più armato sarai, più terrai lontano da te il pericolo di una guerra. Non è difficile riconoscere in questa lapidaria espressione, in una forma, per così dire, «essenziale», la filosofia più articolata della moderna «dissuasione» o «deterrenza».

La giustizia e l’interesse delle singole Nazioni e dell’umanità esigono un approccio attento e calibrato, anche dal punto di vista morale, ad un problema così fondamentalmente sotto l’aspetto dei principi e tanto denso di conseguenze pratiche, di vita o di morte.

Mi colpì l’osservazione di uno scienziato, e non esente, certamente, da preoccupazioni etiche, il quale, discutendo delle possibilità di realizzazione e delle prevedibili o temibili implicazioni di un ambizioso progetto di «difesa», concludeva che, tutto attentamente ponderato, restava per lui, ancor oggi, più pratico, meno pericoloso e più utile alla pace continuare ad attenersi al principio di una «onesta dissuasione».

A parte il valore delle sue argomentazioni scientifico-tecniche, l’accostamento di questi due termini non poteva non indurre alla riflessione.

Ricordo, d’altra parte, la risposta del Papa Paolo vi ad un uomo di Stato di un grande Paese, che gli citava appunto le parole dell’antica «saggezza» romana. Oh no! Reagì il Papa, con quel sereno e talvolta solo apparente candore che gli era proprio — «si vis pacem, para pacem».

Naturalmente, l’interlocutore avrebbe potuto ribattere che l’obiettivo restava comune: la pace; diverso era soltanto il giudizio sul cammino più efficace per raggiungere lo scopo.

Il realismo contro l’idealismo, si sarebbe detto. Il solido terreno della realtà contro i calcoli generosi e la illusione dei buoni sentimenti. Ma è proprio così?

Per millenni la guerra è stata considerata come un mezzo piuttosto usuale e accettabile di conquista e di gloria. Nazioni in via di espansione o con forte volontà di affermazione della propria supremazia e del proprio dominio su altri popoli. Condottieri e geni della strategia alla ricerca di allori e di potere. Non ho bisogno di ricordare a voi la lunga, faticosa, disuguale evoluzione che ha portato man mano l’umanità a prendere coscienza della inammissibilità morale di una simile concezione e del conseguente comportamento. Più e più i prìncipi e i popoli che hanno continuato a fare guerre — e Dio sa quante ve ne siano state! — hanno sentito il bisogno, o di negare di averne preso l’iniziativa, o d’invocare forti e quasi ineluttabili ragioni per prendere le armi. Accettata ormai, come principio del diritto internazionale moderno, la rinuncia all’uso o anche solo alla minaccia dell’impiego della forza per far valere i propri veri o presunti diritti, è rimasto, quale motivo riconosciuto legittimo per il ricorso alle armi, una guerra imposta, ossia la necessità di difendersi. Lo stesso ricorso al «primo colpo» per prevenire un previsto o temuto attacco dall’altra parte è sottoposto, nella teoria, a tali condizioni, che ciascuno preferisce non apparirne responsabile.

Questo atteggiamento, rispondente a considerazioni di diritto e di morale, è stato rinforzato dal crescente potenziale distruttivo degli armamenti che il «progresso» è venuto ponendo nelle mani degli opposti schieramenti e che ha reso sempre meno «tollerabili» le conseguenze della guerra anche alla parte vincente.

La comparsa della bomba atomica sulla scena della storia ha poi messo decisamente in crisi una filosofia politica che non aveva e non ha ancora saputo, o potuto, togliere diritto di cittadinanza all’ipotesi stessa della guerra nei rapporti fra popoli e Paesi. (…)

È nata così, e si è allargata e rafforzata sempre più la convinzione che sia ormai necessario togliere dalle mani degli uomini gli strumenti dei quali hanno bisogno per farsi la guerra, ossia il disarmo. Un concetto relativamente moderno nella storia della umanità, ma che va imponendosi sempre più, anche con la forza della necessità: anche se risulta sempre più facile spaziare nei campi delle grandi dichiarazioni di principio e delle intenzioni generali che entrare nella concretezza dei problemi. (…)

La via della pace è lunga e difficile.

Il disarmo è, senza dubbio, uno dei mezzi più efficaci e fondamentali al suo servizio; ma neppure la sua via è breve o facile. Soprattutto, non è sufficiente.

Ancor più indispensabile è un disarmo morale e politico, per cercare di togliere, o almeno di diminuire al massimo, insieme alle armi, le ragioni che spingono uomini e popoli a farvi ricorso: la volontà di dominio e di sopraffazioni da una parte; dall’altra parte, il fondato timore di divenire oggetto di aggressione, nella propria esistenza, nei propri vitali diritti e interessi, nella propria indipendenza, nella propria libertà, più preziosa della stessa vita.

Le misure destinate ad accrescere la fiducia trovano sempre più credito nei rapporti fra le Nazioni. Esse vanno incoraggiate e allargate. Ma ancor più importante è promuovere e perfezionare il sistema del dialogo politico, rafforzato dal ricorso —  reso forse anche obbligatorio, nei debiti modi — alle diverse possibili forme di buoni uffici, mediazione, arbitrato. Nella presente situazione l’Onu, con le sue strutture, rappresenta quanto dl meglio la Comunità internazionale ha a disposizione in questo campo. Vorrete perdonarmi se ricordo qui, incidentalmente, anche quanto la Santa Sede poté fare, in un momento particolarmente critico nel Cono sud dell’America meridionale, con la mediazione del Papa Giovanni Paolo ii fra il Cile e l’Argentina.

Il diritto internazionale ha ancora una lunga strada da percorrere, per giungere ad accordare efficacemente le ragioni supreme della pace con quelle della sovranità, dei diritti e dei legittimi interessi di tutte le Nazioni, piccole e grandi.

Nobile e doveroso compito degli uomini di Stato e della politica, dei responsabili della vita internazionale, degli studiosi dei nostri giorni! Ad esso, per tanti titoli, non è estranea la vostra Conferenza. Anche perché il disarmo è, in qualche modo strettamente collegato alle maggiori possibilità delle singole Nazioni e della Comunità internazionale di far fronte alle sfide dello sviluppo, nel quale il Papa Paolo vi riconosceva «il nuovo nome della pace».